Vita e opere di Esaù

Racconto vincitore della medaglia argento e oro al “Concorso Letterario Città di Livorno 2020″

Alfredo ed Esaù si conobbero nel 1948 a Livorno. Il primo si recava spesso lì come rappresentante di commercio, mentre il secondo vi era nato e vissuto. Nato in un’ottima famiglia, di avvocati e notai, ma, come il suo biblico omonimo, aveva praticamente venduto la sua primogenitura in favore del fratello Guido. Quest’ultimo, seguendo le orme paterne, esercitava la professione di avvocato, mentre Esaù, sempre un po’ vago fin dall’adolescenza, non aveva terminato il liceo classico, anche se recitava a memoria brani della Divina Commedia e poesie di Giosuè Carducci.
Il severo padre, preso atto della inconcludenza del primogenito, aveva riversato su Guido le sue attenzioni e, a malincuore, aveva aiutato Esaù ad aprire uno studio fotografico. Il creativo giovane se la cavava abbastanza bene con la fotografia, la sua specialità erano le fototessere, dato che riusciva a evidenziare il lato migliore di ciascun volto, anche quello meno simmetrico e armonioso.
Alfredo, a Grosseto conosciuto come il Conte Pelo per la sua ricercata eleganza, amava essere ritratto per meglio ammirare l’armonia dei propri lineamenti, mostrare alla moglie Eufemia (e anche a qualche altra damigella) quanto venisse bene in fotografia. Fu dunque naturale per lui rivolgersi a Esaù per avere immagini di sé di qualità e farsi fare quello che oggi si chiamerebbe un book.
Così, in breve tempo, divennero amici, anche perché Esaù apprezzava lo stile e la simpatia di Alfredo, così come il Conte Pelo riconosceva la qualità del lavoro dell’amico.
Esaù era discretamente bravo anche nei servizi fotografici per matrimoni e prime comunioni, immortalava spose con l’aria sognante e comunicande sulla strada della santità.
Il suo problema, però, era una certa incostanza, per cui talvolta impiegava mesi per consegnare un album di nozze o sviluppava solo in parte le foto di un banchetto, perché il secondo rotolino aveva preso luce.
La sua carriera si infranse nel 1950 (come dice Amedeo Minghi, “anno tra la guerra e il 2000”) quando fu incaricato da una delle più importanti famiglie del Livornese, di rendere imperituro con le sue immagini il matrimonio del rampollo Andrea che conduceva all’altare una leggiadra fanciulla di nome Rita, figlia di un ricco imprenditore.
Le nozze si svolsero nel migliore dei modi, abiti bellissimi, invitati eleganti, pranzo spettacolare e torta a sette piani.
Esaù scattò foto in tutte le pose, con genitori commossi, amici entusiasti e perfino una bisnonna in pompa magna.
Tutto benissimo. Fino a che, la sera, il nostro eroe si accorse con raccapriccio di non aver messo la pellicola nella macchina fotografica.
Inutile dire che rischiò il linciaggio. Il nerboruto padre della sposa, in gioventù portuale di Livorno, lo voleva uccidere.
Sopravvisse grazie al biglietto del treno per Grosseto che suo padre fu pronto a procurargli, ma la sua attività di fotografo era ormai finita.
Così si trasferì nel capoluogo maremmano, vivendo per un paio d’anni dei bonifici paterni, poi uno zio deputato riuscì a farlo entrare in un ufficio pubblico dove le sue mansioni erano indefinite come le sue attitudini.
In quegli anni ritrovò Alfredo e presero a frequentarsi, discorrendo di varie amenità e facendo a chi le sparava più grosse.
Anna, suocera di Alfredo, sosteneva che il suo nome fosse veramente appropriato. “Non per il fatto delle lenticchie, anche se potrebbe farlo, ma perché, se ci pensate, Esaù è l’inizio di esaurito e lui lo è abbastanza. Pensate che, la prima volta che l’ho incontrato con Alfredo, mi ha fatto il baciamano e poi ha nafantato di una certa contessa…”
In effetti, Esaù aveva l’abitudine di declamare versi e quella volta, inopinatamente, se ne era uscito con: “… Contessa, che è mai la vita? È l’ombra di un sogno fuggente. La favola breve è finita, il vero immortale è l’amor ”.
La signora Anna, un tipo ironico e scanzonato, aveva l’abitudine di mettere soprannomi, per cui, da quel momento, lei e la figlia avevano identificato l’ex-fotografo come “l’esaurito”, mentre piuttosto esauriti erano in realtà i suoi parenti, sempre preoccupati per il loro originale congiunto.

Il 1958 per Esaù fu un anno di svolta.
Compiva quarant’anni (età all’epoca considerata piuttosto insolita per uno scapolo), ma il problema era ben altro.
Il nostro eroe, assolutamente refrattario a legami sentimentali e ancor più alla famiglia, era tuttavia attratto dal gentil sesso.
Il che non aveva costituito un problema, dato che esistevano le case di tolleranza di cui lui era assiduo frequentatore fin dai diciotto anni.
Ma quell’anno accadde un evento davvero funesto dal suo punto di vista: la legge Merlin impose la chiusura dei postriboli statali.
Ora, si potrà dire, qualche signorina disponibile dietro congruo compenso avrebbe potuto trovarla… Ma lui no, voleva essere garantito dallo Stato sull’igiene e la regolarità della cosa.
Attraversò una fase di negazione in cui sperava che la faccenda fosse provvisoria e un giorno non lontano l’ameno villino avrebbe riaperto. Si sfogava con Alfredo il quale, però, non riusciva a capirlo fino in fondo, dato che aveva sempre avuto gratuitamente l’attenzione delle donne.
La fase successiva fu di sconforto. Quella brava donna (non diceva così) della Merlin aveva fatto un bel danno, togliendo a lui e a molti altri la piacevole e transitoria compagnia delle “ragazze”.
Una volta passato il momento di dolore acuto, entrò nella terza fase: la ricerca della soluzione. Andò a Livorno a consultarsi con il fratello, marito e padre da oltre dieci anni.
La conclusione fu che era il momento di prendere moglie. Tutto sommato, Guido non si trovava male, sua cognata era gentile e anche i bambini, in fin dei conti, si potevano sopportare. Era la prima volta che Esaù si confrontava con questa prospettiva. I neonati gli avevano sempre fatto un po’ impressione, le responsabilità molto di più. Ma ora, dopo la chiusura del villino…
Così cominciò a guardare il mondo con altri occhi e capì che era anche il caso di lasciare la camera in affitto da un’anziana coppia e cercare casa e moglie. Anzi, prima moglie che casa, dato che non aveva proprio idea di come si potessero gestire né la prima né la seconda, ma la casa senza moglie era impensabile e così pure la moglie senza casa.
Ora il punto era: come trovare la donna da sposare. Dove. Quando. Lui non era brutto e neanche povero. Ma non sapeva nulla di tutto ciò.
La questione si risolse in modo impensato.
C’era una merceria dove comprava mutande e calzini che aveva una commessa sulla trentina, né bella né brutta, lievemente strabica e di poche parole. Esaù, mentre comprava le mutande (boxer bianchi con apertura anteriore) ebbe un flash.
“Signorina”.
E lei, professionale: “Mi dica”.
“Come si chiama?”.
“Clara”, rispose lei arrossendo.
“Ecco, signorina Clara, lei è fidanzata?”
“No”, lei ormai paonazza.
“Le piacerebbe fidanzarsi e sposarsi con me?”.
La giovane sgranò gli occhi e il sinistro strabico andò completamente in trasferta. Rimase muta con le mutande in mano.
“Facciamo così, ci pensi e domani torno e mi dà la risposta”.
Raccontò quanto accaduto ad Alfredo che rise di cuore e si offrì di accompagnarlo il giorno dopo per assistere al seguito.
Il pomeriggio successivo Esaù tornò alla merceria insieme all’amico.
Clara era leggermente truccata e indossava un leggiadro golfino rosa cipria.
“Buonasera, signorina Clara. Ci ha pensato?”
“Sì, signor Esaù, ci ho pensato e sono d’accordo. Però non so come dirlo ai miei”.
“Non c’è problema, glielo dico io. Stasera alla chiusura del negozio l’accompagno dai suoi genitori”.
Così, un paio d’ore dopo, Clara, Esaù e Alfredo si recarono dagli ignari coniugi. Erano persone semplici, ma molto educate e rimasero esterrefatti dalla richiesta improvvisa, ma soprattutto allibiti quando Esaù spiegò come l’urgenza del matrimonio dipendesse dalla chiusura delle case di tolleranza. Il padre della ragazza (tra l’altro socialista ed estimatore della Merlin) si inalberò: “Giovanotto, lei è uno scostumato! E non do il mio consenso!”.
Clara si mise a piangere, mentre Esaù non capiva.
Andò via umiliato e quando Alfredo gli spiegò che non era quello il modo di fare una domanda di matrimonio, disse che qui la gente la faceva troppo lunga e il babbo di Clara doveva essere per la Merlin.
Comunque, ormai l’amore era scoppiato e due giorni dopo Esaù e Clara fuggirono in Vespa (perché lui non aveva l’automobile) e trascorsero una notte in albergo a Follonica. Dopo questo scandalo, pensate un po’, il consenso fu inevitabile.
I due si sposarono in fretta e furia e andarono ad abitare nell’appartamento che i genitori di Esaù (entusiasti del fatto che qualcuna si fosse accollato il figlio) comprarono immediatamente.
Nonostante le premesse un po’ particolari, la vita matrimoniale fu lunga e felice, nonché allietata dalla nascita di due bambini, maschio e femmina, a cui furono imposti i nomi di Alfredo (testimone di nozze) e Lina (come la Merlin, dato che, se non ci fosse stata lei, nulla di tutto ciò sarebbe avvenuto).
In conclusione: tutto è bene ciò che finisce bene, l’ha detto qualcuno che scriveva molto meglio di me.

Fulvia Perillo

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