Valencia

Il mio nome è Valentina, ma quasi tutti mi chiamano Valencia. No, vi prego, non lo pronunciate alla spagnola, come la città, per intendersi. Il “cia” finale si legge all’italiana, ecco, potete sillabarlo ad alta voce: “Va-len-cia”.
Il primo a trasformare il mio nome fu Gilfredo, il mio nonno paterno, un tipo simpatico, piccolino, con baffetti sempre allegri. O forse non erano i baffetti a conferirgli un’espressione gioiosa, però, aiutavano.
Con lui avevamo in comune il giorno di nascita, il sei dicembre. Lui il 6 dicembre del 1907, io settantadue anni dopo.
Mio padre era nato dal suo terzo matrimonio e aveva la stessa età del suo primo nipote. Gilfredo, però, diceva di essersi sentito nonno solo con me. “Ero troppo giovane, prima, e anche un po’ gazzilloro…”.
Ho capito solo molto più tardi cosa intendesse per gazzilloro, per me era una presenza dolcissima, divertente, gioiosa.
Uno dei primi ricordi che ho è proprio quello di lui che mi cullava cantando una canzone molto nota ai suoi tempi, per l’appunto Valencia, ma con il testo riveduto e corretto che non richiamava passioni o seduzioni come l’originale, ma recitava:

Valencia, sei tornata dalla Francia
coi capelli a la garçonne,
Valencia, hai una pulce sulla pancia
che ti balla il fox-trot.
Valencia, hai le guance a melarancia
e la bocca di bisquit,
ma vedi, se non lavi spesso i piedi,
finiranno col puzzar.

Inutile dire che riusciva sempre a farmi ridere, tanto che la canzoncina era diventata una sorta di rituale festoso.
Così, nonostante mia madre non fosse d’accordo, il nonno prese a chiamarmi Valencia e la faccenda si estese a tutti, parenti e amici, salvo i miei genitori che hanno sempre continuato imperterriti a usare il nome che mi avevano imposto.
Io mi sento molto più Valencia che Valentina e sono convinta che la scherzosa filastrocca del nonno abbia influenzato il mio destino. Dentro a quei pochi versi c’erano, in un certo qual modo, Spagna e Francia, oltre a parole straniere (fox-trot e bisquit) e, soprattutto, la descrizione di una ragazza fuori dalle convenzioni, con pulci che le ballavano sull’addome e piedi di dubbia profumazione.
Così ho cominciato molto presto a studiare le lingue, francese e spagnolo anzitutto, ma poi anche inglese,e a viaggiare in giovanissima età.
A ventidue anni, dopo aver frequentato la scuola interpreti, ho deciso di aprire un’agenzia di viaggi ma, fin dall’adolescenza, ho coltivato l’altra mia grande passione, l’equitazione.
Quando vado al galoppo e mi sento tutt’uno col cavallo, mi sembra di essere un vero Sagittario, come il mio segno zodiacale, mezza donna e mezzo animale, intellettuale e selvaggia nel contempo.
Dunque: organizzo viaggi (e ne faccio molti) e, per un po’, sono stata una sorta di navigatrice indomita, senza legami fissi, ma con affettuose amicizie sparse nel mondo. Poi, a trent’anni, ho conosciuto Pablo, uno spagnolo che vive a Parigi e che possiede un’agenzia gemella della mia. Gemella, perché, incredibilmente, entrambe si chiamano Valencia, la mia per ovvi motivi, la sua perché lui viene proprio da quella città. E la vivace ragazza dal temperamento nomade e dal nomignolo spagnoleggiante ha finalmente conosciuto l’amore.
Con Pablo ho fatto un passo che mai avrei creduto, quello del matrimonio, uno sposalizio multicolore, con invitati di tante nazionalità, anche se la mia parte tradizionale ha voluto l’abito bianco e la cerimonia religiosa nella capitale francese, romantico luogo del nostro incontro.
Siamo molto felici, io continuo a vivere a Roma, lui a Parigi, ci vediamo due fine settimana al mese, ma spesso viaggiamo insieme.
Anzi, negli ultimi anni, ci siamo anche specializzati in trekking a cavallo e ne organizziamo di magnifici.
Un ménage poco tradizionale, dicono i miei genitori, ma sono sicura che nonno Gilfredo, se ancora fosse tra noi, approverebbe, dato che in gioventù pare fosse assai inquieto e che le sue tre mogli abbiano dovuto adattarsi ai suoi continui spostamenti.
Si sussurrava anche che non fosse un tipo fedele, sia negli intervalli di vedovanza fra i matrimoni che durante le fasi coniugali.
Mia nonna Carolina, la sua terza moglie, l’unica che gli è sopravvissuta, ne parla sempre come di un adorabile birbantello.
“E dire – aggiunge – che era più vecchio di me di un quarto di secolo, ma non riuscivo a stargli dietro. Quante gliene ho dovute perdonare o far finta di non vedere… Però, poi, era così adorabile, affettuoso. Mi manca tanto”.
E nel dire questo sospira, pensa a quel marito affascinante e simpatico, ma non certo affidabile.
Io lo capisco, in fondo. L’amore ha bisogno di rinnovarsi, deve essere come una libera cavalcata nella natura, non come una rigida catena. Comunque, amo mio marito, davvero. Pablo è bello, colto, intelligente e anche simpatico. Non potrei volere di più.
Non voglio di più. Solo che la strada della virtù è lastricata di tentazioni. Come, ad esempio, Lucio, il mio giovane collaboratore di agenzia che ha dieci anni meno di me e somiglia a Jude Law.
O Giordano, il mio istruttore di equitazione che ha molto in comune con Antonio Banderas nel fulgore dei suoi anni.
Oppure, per esempio, don Stefano, il mio padre spirituale (no, perché vorrei chiarire che sono anche religiosa, tengo alla mia anima) che ricorda un po’ Jeremy Irons.
D’altra parte gli occhi sono fatti per guardare…
E Pablo sa di aver sposato un’amazzone poliglotta e non una tranquilla casalinga che lo attende preparando il sugo.
A ogni modo, l’anno scorso ho comprato un cavallo stupendo, dal mantello lucente e dal carattere impetuoso che ho chiamato Cherie e con cui mi lancio in incredibili scorribande per mettere alla prova la forza delle mie gambe e la capacità di comunicare col mio amatissimo equino.
Cherie è anche il nome che ho sempre usato con Pablo nell’intimità ma, affettuosamente, lo utilizzo anche con Lucio e con Giordano.
Padre Stefano, no, è un’altra cosa, lui non lo chiamo proprio, aspetto solo l’assoluzione…
Ah, ultimamente mi hanno regalato un cucciolo di labrador, delizioso, e ho deciso di chiamare Cherie anche lui.
Così non mi sbaglio mai, né quando cavalco, né al lavoro, e neppure nei periodi di convivenza col mio legittimo consorte.
E, ovviamente, in nessun’altra circostanza.
D’altra parte, la vita è una bellissima avventura, per una che ha un nome (d’arte?) come il mio.
Citando Domenico Modugno, canticchio spesso:

Com’è bella l’avventura, un cavallo e una chitarra, ogni punto della terra per fermarsi o per andar.

E io, per il momento, benché prossima ai quaranta, vado dappertutto e mi diverto parecchio.
Per tornare a essere Valentina, se mai accadrà, c’è ancora tempo. Molto tempo.

P.S. Riprendendo spunto da ciò che diceva il nonno, mi definisco un po’ gazzillora, ho capito finalmente cosa intendeva…

Fulvia Perillo

*testo italiano della canzone Valencia, quello vero.

Valencia, dolce terra
che ci afferra con le mille seduzion,
Valencia, paradiso del sorriso
che ci inebria di passion.

Valencia, sei fatale
come strale che fa il cuore sanguinar,
io t’amo e più nulla per me bramo
poiché tutto è fine a te.

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