Una notte a Roma

Nel giugno del ’61, Alfredo, detto anche il Conte Pelo, fu assunto inaspettatamente in Comune. Smise così la sua vita itinerante di viaggiatore di commercio e questo, se da un lato significava una vita più comoda e più sicura, dall’altro metteva definitivamente a riposo il suo spirito irrequieto che necessitava di stimoli e di ambienti diversi.
Aveva partecipato al concorso tanto per fare, su insistenza della moglie Eufemia che non sopportava più le assenze del marito e, a quarantasette anni, dopo diciassette di matrimonio, ambiva a trascorrere insieme a lui tutte le rimanenti sere.
In realtà Alfredo era arrivato terzo e i posti erano due, ma il primo classificato, un ragazzo giovane e diplomato, aveva optato, dopo alcuni mesi, per un impiego in banca, meglio remunerato.
Così Alfredo, in men che non si dica, si era ritrovato impiegato all’ufficio tributi del Comune e questo aveva reso felicissima Eufemia.
“Alfredo – gli aveva detto – questo è un miracolo, davvero. Sai, ho tanto pregato, vedi”.
“Cara, veramente è stato un caso”.
Ma Eufemia, pur non essendo particolarmente religiosa, riteneva che nell’assunzione del marito vi fosse stato un intervento divino.
“Dobbiamo andare a ringraziare il Signore per questo”.
“Bene. Domani vai ad accendere una candela”.
“No, non basta. Devo andare a San Pietro”.
“Ah, la chiesina in mezzo al corso?”.
“Ma che dici, Alfredo, la basilica di San Pietro, il cuore della cristianità”.
“Vuoi andare a Roma?”.
“Sì, certo. E devi venire anche tu”.
“Io? Ma se l’ultima volta che sono stato in chiesa è quando ci siamo sposati”.
“Appunto. Pensa come è grande il Signore, ti ha beneficiato anche se tu lo ignori”.
Così, un caldissimo sabato di fine luglio, il Conte Pelo e sua moglie, a bordo della macchina nuova fiammante (finalmente non di proprietà della ditta, ma proprio di Alfredo), partirono per Roma, lei entusiasta, lui rassegnato.
Avevano prenotato una camera in vicinanza di largo Argentina e, dopo essersi cambiati, chiesero al portiere di indicar loro un buon ristorante per cena.
Si trovarono così alla trattoria “La vecchina”, cucina tipica romana, dove gustarono rigatoni alla pajata, seguiti da coda alla vaccinara e verdure miste fritte. Tutto buonissimo e annaffiato da ottimo vino della casa.
Alfredo, però, trovò il cibo un po’ troppo salato.
Eufemia non era d’accordo. Lei si era trovata benissimo, diceva, le pietanze erano perfette.
Dopo una lunga passeggiata, rientrarono in albergo che era quasi mezzanotte. La serata era calda e, all’epoca, non c’era aria condizionata negli alberghi.
Nonostante l’afa, Eufemia, decisamente felice per l’assunzione del marito e per il breve viaggio, riuscì ad addormentarsi rapidamente, assumendo nel sonno un’aria talmente beata che Alfredo fu pervaso dalla tenerezza nei confronti della sua consorte, così seria, affezionata, lavoratrice. Una grande fortuna per uno come lui, tendenzialmente un po’ scapestrato. Eufemia era stata fin dal primo momento un punto fermo nella sua vita movimentata: lei era colta, insegnava e dava ripetizioni. Ma era anche gentile e buona, molto tollerante e sempre di buonumore. Figli non ne avevano, ma non era un problema per nessuno dei due. Lui pensava di non essere adatto per la paternità e lei era molto presa dai suoi impegni. Qualche volta, poi, gli aveva detto che aveva già un bambino da guardare. “Mio caro, tu sei un ragazzo vivace, ti devo badare! Non avrei tempo per un’altra creatura”.
Però, lo diceva sorridendo, mai arrabbiata e questo muoveva in Alfredo dei sentimenti che quasi non credeva di avere.
Quella notte, però, oltre alla dolcezza nei confronti della moglie, Alfredo aveva anche un gran sete. Quella cena romana era davvero troppo saporita. Bevve un po’ d’acqua, ma l’arsura non si placava.
Così, anche per non disturbare Eufemia, decise di uscire a camminare, sperando di trovare un bar dove gli servissero una bibita fresca.
La notte era stellata e suggestiva, ma non si vedevano locali aperti.
A un certo punto, giunto in prossimità di piazza Venezia, vide una ragazza bionda e slanciata che scendeva da un taxi litigando con qualcuno.
La giovane, in lacrime, sbatté la portiera. Parlava inglese, almeno così sembrava ad Alfredo che non conosceva nessuna lingua, ma ascoltava spesso le canzoni americane.
Lui era un uomo decisamente di bell’aspetto, sempre elegante e di modi galanti nei confronti del gentil sesso.
Così, fu automatico per lui avvicinarsi alla ragazza e chiederle se andava tutto bene.
Lei rispose in inglese e lui non capì niente.
Vedendo la sua espressione perplessa, gli si rivolse in italiano, pur con un fortissimo accento.
“No, no, niente bene. Il mio fidanzato mi ha lasciato e io devo tornare a Londra senza di lui”.
E giù lacrime.
Alfredo pensò di doverla consolare e provò a dire qualcosa.
“Su, su, signorina, lei è giovane e bellissima, troverà un uomo più adatto a lei”.
“Io sono Gillian. E tu?”.
“Alfredo”.
Lei cominciò a parlare, mentre camminavano nelle strade del centro di Roma, praticamente deserte.
Parlava un po’ italiano e un po’ inglese, per cui Alfredo non era proprio sicuro di capire.
Comunque lei era una studentessa di storia dell’arte, a Roma per una tesi sui Musei Vaticani. Era arrivata sei mesi prima e aveva conosciuto Marco, professore di storia romana. Ma lui aveva nascosto di avere un’altra fidanzata italiana e solo due giorni prima lei aveva scoperto che stava per sposarsi.
Ora voleva solo dimenticare, andare via.
Alfredo non sapeva che fare. La ragazza era molto carina, ma giovane e disperata. E poi Eufemia era in albergo e poteva cercarlo.
Ma, soprattutto, la sete non passava e non aveva trovato nulla da bere.
“Ho sete” disse “Devo assolutamente bere qualcosa”.
La giovane lo invitò al suo albergo. Lì, sicuramente, avrebbe potuto dissetarsi.
L’hotel dove Gillian dimorava non era paragonabile al piccolo albergo dove aveva lasciato Eufemia dormiente.
Si trattava di un grande albergo centrale con portiere di notte e camerieri in livrea, ma, soprattutto, con un ampio locale dove molti clienti ascoltavano musica di un pianobar, nonostante l’ora tarda.
Gillian fece un’ordinazione in inglese e Alfredo non capì.
Pochi minuti dopo, il cameriere portò una bottiglia di champagne francese immersa in un cestello del ghiaccio.
Lui ne bevve due coppe e, miracolosamente e immediatamente, la sete si calmò. La ragazza, invece, non riusciva a calmare la sua agitazione e fece fuori tutto il resto della bottiglia.
Piangeva e beveva. Parlava prevalentemente in inglese e più beveva e meno si capiva cosa voleva dire.
Finita la bottiglia, lui era sobrio e non più assetato. Lei, per contro, era su di giri e priva di controllo.
Alfredo si sentì triste. Non voleva approfittarsi di una ragazza così fragile, anche se molto bella e disinvolta. Così, nonostante i suoi evidenti inviti a concludere la serata insieme, si allontanò garbatamente e silenziosamente. Le baciò leggermente la mano e le disse solo “Grazie dello champagne, mi ha fatto passare la sete. Buonanotte”.
Tornò nel piccolo albergo che erano quasi le quattro. Eufemia dormiva beata e anche lui si sentì molto felice: non aveva più sete e, almeno in quella circostanza, era stato un marito fedele e innamorato.
Alfredo, detto anche il Conte Pelo, pensò che in fondo qualcosa di nobile, in lui, c’era davvero.

Fulvia Perillo

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