Una bellezza di nome Mary

Alfredo, detto anche il Conte Pelo, classe 1914, per oltre dieci anni prestò servizio militare.
Per chiunque abbia avuto la ventura di conoscerlo, la cosa sembra impossibile, dato che il suo stile era infinitamente lontano dalla disciplina a cui si può immaginare formato un giovane dopo un’esperienza di tal genere dall’età di vent’anni.
Ma lui era la prova vivente che la natura e il temperamento non si cambiano. Quando si nasce dandy e spensierati, non c’è militare e neppure guerra che riesca a modificare quella leggerezza.
Sentir raccontare da Alfredo la sua vita dai venti ai trent’anni era uno spettacolo. Storie divertenti e avventure mirabolanti che avrebbero fatto invidia al Barone di Munchausen.
Sì, va bene, c’era stato anche il periodo del campo di concentramento, ma ne era uscito e questo contava, anzi, era fonte di grande ottimismo e di una qual sorta di disprezzo per i problemi esistenziali.
Le donne, ovviamente, erano sempre presenti nelle storie del Conte Pelo. Ed erano tutte bellissime, disponibili e simpatiche.
Una volta, durante un pranzo in famiglia, capitò che alla radio (sempre accesa a casa dei cognati) trasmettessero una vecchia canzone. Io t’ho incontrata a Napoli, bimba dagli occhioni blu… Era davvero molto suggestiva, impregnata d’amore e di speranza. C’incontreremo a Napoli, quando il mondo pace avrà, perché la mia felicità, io l’ho incontrata a Napoli…
“Perché dice quando il mondo pace avrà?”. Domandò curiosa Giulietta, la nipotina di sua moglie Eufemia.
La zia, sempre molto pedagogica, spiegò che era stata scritta durante la guerra e che la canzone incarnava le promesse di tutte quelle coppie che il conflitto aveva diviso e che speravano di ritrovarsi e vivere insieme per sempre.
“Eh, tesoro – interloquì lo zio – ma le cose non vanno sempre così…”.
Giulietta capì che Alfredo si stava per lanciare in una delle sue storie a cavallo tra realtà e fantasia e si mise in attentissimo ascolto.
“Allora. Tornavo dopo tanti mesi in licenza. Venivo da Tripoli e sbarcai al porto di Napoli una sera di ottobre. Era tempo di guerra, momenti bui…”.
Il giovane Alfredo si recò alla stazione. Lì, con un po’ di fortuna, perché gli orari erano indicativi e suscettibili di imprevisti, avrebbe preso il treno per Roma e poi per Grosseto.
Era piuttosto stanco del viaggio e neppure troppo felice di tornare a casa, ormai non era più un ragazzo e gli piaceva girare il mondo. Invece si prospettava un periodo di isolamento, senza amici, senza donne disinvolte. Insomma, immerso nei suoi pensieri, salì in treno. Sicuramente avrebbe viaggiato con qualche vecchietto bronchitico che tossiva o qualche signora logorroica o, peggio ancora, con qualche ragazza bruttina desiderosa di attaccare discorso. Si accomodò in uno scompartimento vuoto sperando che rimanesse tale.
Grande fu la sua sorpresa quando vide entrare, anziché uno dei soliti personaggi, una donna bellissima. “Bellissima come?” chiese la bambina “Guarda, un volto espressivo, gli zigomi alti, un incarnato luminoso…”.
E poi l’eleganza. Una gonna lunga sotto il ginocchio da cui spuntavano gambe perfette avvolte in calze di seta. Una giacca tre quarti di camoscio e un originale cappellino intonato completavano il quadro. Non era una delle solite ragazze, no, sicuramente. Alfredo si entusiasmò subito. Un po’ meno quando vide che la giovane era accompagnata da uno strano uomo di mezza età e una donna affannata e in sovrappeso che portava voluminosi bagagli.
In breve, si rese conto che la ragazza non era italiana e parlava in inglese con il tipo che sembrava stizzito e contrariato, per cosa non si poteva capire.
La donna grassoccia con i bagagli si rivolse ad Alfredo in italiano: “Li scusi, litigano sempre”.
“Ma lui è il marito?”.
“Oh no – scoppiò a ridere la donna – lui è Ronnie, il segretario della signorina, il marito no, figuriamoci, non gli piacciono le donne”.
Alfredo lo guardò meglio. In effetti era vestito in modo piuttosto originale, con una redingote beige e pantaloni neri a sigaretta, mentre ai piedi calzava scarpe a punta di vernice. Era molto contrariato e discuteva animatamente con la sua bella principale. Alfredo si domandava che attività esercitasse la ragazza, così importante da avere un segretario.
Magari era un’ereditiera, la cosa si faceva sempre più interessante. Chiese alla donna.
“Eh no, mi dispiace, io sono Dolly, la cameriera personale della signorina, mia madre era italiana, per questo sono bilingue. Non posso dire niente su di lei, sono tenuta alla riservatezza assoluta”.
Il treno partì, allontanandosi pian piano da Napoli. Alfredo e la misteriosa dama cominciarono a scambiarsi sguardi interessati. D’altra parte, lui in divisa faceva la sua figura e poi, si sa, era un curioso delle donne.
Alfredo parlava esclusivamente il maremmano, la signorina conosceva poche parole di italiano eppure si intesero benissimo. Un’ora dopo erano entrati in confidenza, diciamo che la comunicazione era prevalentemente non verbale, ma ridevano come se capissero tutto ciò che l’altro diceva nella propria lingua.
Giunsero a Roma in piena notte e lì Alfredo avrebbe dovuto prendere il treno per Grosseto, mente la ragazza che diceva di chiamarsi Mary avrebbe dovuto proseguire per Milano il mattino dopo.
Scesero dal treno sorridendosi, dispiaciuti che il viaggio fosse finito, ma fu subito evidente che i treni quella notte non sarebbero partiti (c’era stato un allarme) e quindi Alfredo avrebbe dovuto aspettare in stazione fino mattino dopo. Non aveva certo i soldi per pagarsi un albergo a Roma. La cameriera Dolly spiegò la situazione alla signorina e lei, incurante del nervosismo che agitava il suo accompagnatore, prese Alfredo per mano, mollò Dolly e Ronnie con i bagagli, e cominciò a correre. In un attimo si trovarono fuori dalla stazione, immersi in una Roma bellissima e buia dove vagarono per diverse ore scambiandosi parole prive di significato e qualche bacio, immersi in una bolla di precaria felicità. Ma d’altronde Alfredo era un professionista della precarietà, economica, sentimentale, logistica. Per cui la notte romana in compagnia della bella sconosciuta non lo sconvolse più di tanto. Così come non lo turbò risvegliarsi al mattino in un albergo elegante che mai aveva neppure immaginato. Si svegliò solo, però. Nella camera rifinita in raso bianco, arredata in stile liberty, non c’era nessuno, solo lui. Il sole era alto, era addirittura passato mezzogiorno. Fu l’unica volta che si pentì del suo essere dormiglione che gli aveva impedito di salutare la sua fantastica amica e magari scoprire qualcosa di più su di lei.
Però, fu piacevole, scendendo nella hall, scoprire che il suo soggiorno era già pagato e lo aspettava anche una lauta colazione all’americana, praticamente un pranzo che lo rimise in sesto prima di affrontare il viaggio per Grosseto.
Gli anni passarono. Alfredo non era un sentimentale, ma ogni tanto gli tornava in mente quella ragazza così bella e speciale, allegra e comunicativa. Chissà.
Poi un giorno, dopoguerra, quando era già sposato con Eufemia, al cinema ebbe una rivelazione.
La moglie lo aveva portato a vedere Via col vento e lui già pensava che si sarebbe addormentato, come sovente gli accadeva al cinema. Invece il film catturò la sua attenzione, Rossella, Le dodici querce, Ashley… Ma, a un tratto, quando comparve la dolce Melania interpretata da Olivia De Havilland, Alfredo balzò in piedi, quasi urlando: “È lei!”.
La sala era strapiena, densa di fumo e di profumi di umanità. Diversi si girarono: “Sssttt!”.
Eufemia, imbarazzata, gli dette una gomitata, ma lui rimase particolarmente sveglio durante tutta la proiezione e, all’uscita, rivolto alla moglie, disse: “È lei, la ragazza del treno, quella donna misteriosa e bellissima di cui ti ho raccontato”
“Ma chi?” la donna, allibita.
“Melania. Come si chiama l’attrice”
“Olivia de Havilland? Ma non hai detto che si chiamava Mary?”
“Sì, ma era in incognito. E magari è il suo secondo nome”.
Naturalmente nessuno gli credette mai, né la moglie, né la cognata e tantomeno la suocera che scuoteva il capo e diceva: “Alfredo, sei più bugiardo del libro dei lunari”.
L’unica a credere a questa storia fu Giulietta, a otto anni con fede incrollabile, in seguito un po’ meno, ma in fondo, chissà, perché no, si trattava pur sempre del conte Pelo, mica del barone di Munchausen!

Fulvia Perillo

Lascia un commento