Pedro salta più in alto…

… il campo sembrava un arello gonfio di pioggia, magliette e calzoncini inzuppati di fango, il cielo plumbeo e ammalato di notte. Pochi spettatori a resistere al vento che soffia diaccio e fastidioso. In campo due squadre di provincia, la Cinghiala e il Ciciano.
Correva forse il ’74, al ritmo di Battisti e dei Jethro Tull, al ritmo dei juke-box, al ritmo dei passi stanchi e dilettanti. Domani ancora Siena, ancora lavoro e studio, ma oggi in palio c’è qual cosa di più di una semplice domenica di pallone e di provincia.
In quegli anni il calcio dei campetti comunali era come un linguaggio da bar, passato e futuro, il tepore della cucina economica, la voglia del paese e di non andare mai via.
Le squadre sono in pari, zero a zero, il cuoio inzuppato del pallone lo rende pesante come metallo e non si vuole proprio spostare, trascinato tra le pozzanghere. Poi entra un ragazzotto robusto, gambe forti e muscoli. Se ne corre via lungo la fascia e nessuno lo piglia più, non ci sa fare molto con i piedi, ma in quelle condizioni si regge in piedi meglio di tanti altri, dal fondo gli parte una puntata che imbroglia la fisica e porta in aria la sfera esausta. Tutti nell’area di rigore a ripararsi dalle folate, braccia addosso ad altre, gomiti, gambe che litigano, calzettoni alla cavi
glia. Al novantaduesimo l’arbitro ha lasciato il fischietto in tasca, l’orologio morde.
Pedro sa dove arriverà quel pallone, finta un movimento in avanti portandosi appresso lo stopper che mangia le zolle, poi scarta indietro con un colpo di reni e stacca le gambe secche verso l’alto. Ecco, è sospeso come un fantoccio, resta immobile e senza respiro per un attimo, con la testa leggermente inclinata, più in alto di tutti. Quel tanto che basta per incontrare il pallone nella brezza di quel tardo meriggio invernale. L’impatto fa male e scuote i capelli come la schiena sgrullata del setter. Non ci pensa nemmeno a evitare il dolore, la fronte incontra la sfera e la comanda, la dirige nella rete abbandonata al torpore. Il portiere s’inarca e la sfiora, ma il peso piega la mano e la palla si deposita dove deve. Pedro plana a terra e si alza di nuovo, come una molla, con le braccia in alto, esce un urlo lungo che squarcia il silenzio.
La Cinghiala in vantaggio, fischia la fine e quella gelida domenica si scalda del rossore alle guance, di una felicità umile che corre di cuore in cuore, di una sola parte della tifoseria. Si sa, il calcio è fatto così, soprattutto in quei crogiuoli di umanità che sono stati i campetti di calcio.
Tutto è finito, il giorno si spegne…
Glielo avevo promesso a Franco…

Grosseto, 13 maggio 2015
Mario Papalini

Racconto pubblicato sul libro Io mi ricordo di Franco.

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