Un lavoro

(Tratto da MISAKEMIAMA di Anna Genni Miliotti)

Trovare quel “lavoro” per Ilaria, non era stato facile. Alla Rosmini la Preside, la professoressa Magnolfi, aveva convocato entrambi i genitori e aveva proposto per lei un corso di formazione-lavoro, con cui prepararla ad un “possibile” inserimento lavorativo. Così avrebbe potuto alternare l’orario scolastico, con quello della scuola di formazione.
“Le farà bene. D’altronde le lezioni, via via che va avanti, diventano troppo difficili e lunghe per lei. Staccare le farà bene”.
Cristina e Sandro erano contenti di aver scelto il liceo psico-pedagogico (la vecchia scuola magistrale), che accoglieva già alcuni studenti disabili. E quella proposta li confermò nel loro giudizio positivo.
Il secondo appuntamento fu al centro per l’impiego e la formazione, dove la dottoressa Mammoliti, il cui nome corrispondeva al suo sguardo dolce e alla sua soave voce da “mammola”, aveva poi spiegato il programma:
“Si tratta di individuare le sue possibili competenze. E poi rafforzarle, e costruire su queste un possibile percorso lavorativo”.
A Cristina tutti quei “possibile” non erano piaciuti un granché.
Sandro che faceva il bancario, pignolo come sempre, cercò di puntualizzare:
“Mi sembra un buon programma. Quali sono i costi? E i tempi?”.
Tutto sarebbe stato a carico della Provincia, a cui il centro di formazione apparteneva. Anche eventuali tirocini sarebbero stati a titolo gratuito. Per i tempi, tutto rientrava nell’anno scolastico.
Si iniziò con i test, e Ilaria fu sottoposta a semplici prove, per valutarne le competenze. Si divertì molto. Per il momento. Un po’ perché usciva da scuola che quelli magari facevano il compito in classe e lei no. Oppure c’erano le interrogazioni e lei no.
Inoltre sfuggiva all’insegnante di sostegno che, per il terzo anno consecutivo, si intestardiva ad insegnarle a leggere l’orologio, quello con le lancette. Impossibile! Ma non avevano inventato quelli digitali? Che bisogno c’era di guardare le lancette, e poi secondo dove era quella dei minuti moltiplicare… e quella delle ore da calcolare se era prima o dopo… Per Ilaria che si era fermata alla tabellina del 2, che già era una cosa difficile da mandare a memoria, quella dell’orologio era una vera tortura.
In casa erano tutti più tecnologici, perfino Matteo: orologio digitale per l’ora, e calcolatrice per le operazioni. Adesso poi, si potevano fare anche con il telefonino, seguendo x + – : . Anche se quello di Ilaria era ancora di quelli vecchi e lo schermo era troppo piccolo, e non come quello di Matteo che era uno “svarton”.
Il problema di Ilaria non era solo la matematica, ma anche il coordinamento motorio. Per lei destra e sinistra erano fluttuanti: tirava ad indovinare, e siccome aveva un buon 50% di possibilità, qualche volta ci azzeccava. Papà ci scherzava su e raccontava la storiella del “cu’ pilo e senza pilu”.
“Cosa vuol dire?”
“Ai soldati dell’esercito Borbone di Napoli (ti parlo di tanti anni fa), per farli marciare bene, anziché dirgli sinistra-destra, poiché si sbagliavano sempre, rasarono la gamba sinistra. Così quando dicevano “cu’ pilu”, cioè con il pelo, capivano che dovevano alzare la gamba destra, “senza pilu”, senza pelo, quella sinistra.”
La morale era che si trova sempre un sistema “alternativo” per risolvere qualunque problema, e che tutti hanno bisogno di “un aiutino”.
“Ma mica si può depilare una sola gamba ad una ragazza, babbo!”.
Ilaria aveva già cominciato con le depilazioni, come le sue compagne. Ormai era grande. Con lei bisognava escogitare un altro sistema. Per distinguere il davanti della biancheria, per esempio, mamma Cristina faceva un segno con del filo rosso. Ma per destra sinistra, alla fine funzionò il consiglio della nonna: “destra minestra” vecchio infallibile adagio dei suoi tempi.

Ma se questo funzionava a tavola, con le posate, non risolveva altre situazioni. Come per esempio, le scarpe. I primi tempi, quando era più piccola, bisognava controllare che non uscisse con “i piedi alla rovescia”, il che le conferiva un’andatura un po’ instabile. Con il tempo, andò un po’ meglio. Soprattutto se non le si faceva pressioni. Ilaria aveva bisogno di calma, per fare le cose. Allora le riuscivano meglio. Ma nel ritmo cittadino e familiare non sempre riusciva a ritagliarsi quel “tempo” che le era necessario.
La ragione di tutti questi disturbi? Una nascita prematura, una sofferenza durante il parto… nessun dottore aveva fatto una diagnosi precisa. Precisa però era la stata la sentenza: ritardo psicomotorio.
Quando ci si accorge che una figlia è un po’ diversa? Non certo quando nasce, i figli sono tutti uguali e belli, e degni dello stesso amore. E Ilaria era nata piccola e bella, un visino piccolo come una miniatura, una testina che si perdeva sotto una foresta di capelli chiari. I suoi occhi, si ricorda mamma Cristina, non volevano proprio aprirsi. Chissà di che colore erano, se azzurri, come quelli della mamma (ereditati da parte del nonno), o marroni come quelli del padre. Li aveva schiusi solo quando se la era messa sulla pancia, per farle sentire ancora quel battito del cuore, che l’aveva accompagnata per quei lunghi mesi…
Il primo giorno in cui l’aveva allattata, ancora in ospedale, era riuscita a vederli, erano blu e acquosi.
“Ma non si può dire ancora – aveva detto l’infermiera – i primi giorni sono tutti così. Ci vuole del tempo per sapere il loro vero colore”.
E così mamma Cristina si era armata di pazienza. Avrebbe aspettato. La sua bimba era così bella… E riguardo a quei problemi, certamente erano curabili.
“Non del tutto”.
Disse il dottore, quando la bambina crescendo manifestò i primi sintomi.
“Ma con i dovuti stimoli, una buona rieducazione psicomotoria, della ginnastica appropriata, si potranno fare ottimi progressi. La sua bambina però non sarà mai del tutto autosufficiente, e avrà sempre bisogno del vostro aiuto”.
“Già, finché ci saremo. Ma dopo?”.
Si chiedeva spesso Cristina. E le veniva un groppo in gola. Ma poi guardava sua figlia, i suoi occhi pieni di vita, la sua grande allegria e non smetteva mai di pensare che un giorno tutto si sarebbe aggiustato, in qualche modo. Era una scrittrice di libri per bambini, e le sue storie erano sempre a lieto fine. Quindi, perché no?

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