La fu Maria Canal

(racconto ispirato molto liberamente al romanzo Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello)

Mi chiamo Lucy Rossi e vivo a Orlando in Florida con mio marito e mio figlio. Insieme gestiamo una delle attrazioni del luogo, “La piccola Venezia”, praticamente una ricostruzione delle città (ovvero di una sua piccola parte) e dei suoi canali. All’interno c’è un bel ristorante dove serviamo cibo italiano e abbiamo anche una trentina di stanze d’albergo, sempre occupate dai turisti.

Mi trovo bene in questo “non-luogo”, la mattina mi affaccio sui canali che non profumano di mare, vedo in lontananza le attrazioni dei parchi a tema, le spettacolari montagne russe dove dragoni duellanti si sfidano in giri della morte e fantasmagoriche costruzioni dove si possono vivere in diretta le avventure di Hulk o di Spiderman.

Nonostante che tutto intorno a me sia palesemente artificiale, sono riuscita a creare nel mio locale un’atmosfera calda e accogliente, forse per questo abbiamo sempre il tutto esaurito, perché c’è un angolo di autentica italianità affacciata sull’imitazione del Ponte dei Sospiri.

Bisogna dire, però, che anche Lucy Rossi non è del tutto vera, proprio come ciò che la circonda.
Un tempo non troppo lontano, il mio nome era Maria Canal e vivevo a New York.
La mia famiglia ha origini italiane, per l’esattezza venete.
I miei trisavoli si erano trasferiti nella grande mela a fine ‘800, lasciando la nativa Mestre, dove non se la passavano troppo bene.
In America avevano fatto fortuna inizialmente con un piccolo locale da ballo a Brooklyn, dove si suonava musica italiana e che era attrattivo per tutti coloro (ed erano molti) che soffrivano di nostalgia per la patria lontana.
Nelle generazioni successive le attività commerciali si erano moltiplicate e mio nonno negli anni ‘30 aveva aperto un ristorante a Manhattan, cucina rigorosamente italiana, prezzi altissimi, ma accoglienza impagabile, musica, gentilezza e… affetto.
Sì, mio nonno Pietro sosteneva che, oltre al cibo, in una città come New York, molti avevano bisogno di attenzioni e così la clientela veniva fidelizzata non solo con la qualità del cibo, ma anche con la capacità di proprietari e camerieri di conversare amabilmente con gli avventori, ricordarsi delle loro preferenze e, magari, se erano persone che amavano parlare, anche ascoltarli e mostrare grande considerazione delle loro parole.
Così il ristorante “Pietro e Lucia” aveva acquisito numerosi clienti e anche una certa fama.
Io ero praticamente cresciuta lì, anche perché i miei genitori avevano divorziato quando avevo appena tre anni e ciascuno dei due si era risposato lasciandomi in pianta stabile dai nonni.
Pietro e Lucia, benché fossero nati negli USA, parlavano bene l’italiano e avevano voluto che anch’io studiassi la lingua fin dalla più tenera età. Pertanto, mi potevo ben definire bilingue, con un leggero accento toscano, dovuto a Miss Grazia, l’istitutrice livornese che si era occupata della mia educazione e mi aveva seguito negli studi.

Quando era giunta a New York, dopo la laurea in lingue conseguita in Italia, Grazia aveva ventitréanni e io appena sette. Così, per me, era diventata una va di mezzo tra una madre e una sorella maggiore. Mi aveva seguito in ogni ambito della vita, con attenzione, affetto e competenza.

Nel 1980, quando avevo diciassette anni, mio nonno era morto improvvisamente e sua moglie lo aveva seguito a breve. Né mio padre né mia madre, che tra l’altro avevano altri figli, intendevano occuparsi di me e io mi ero ritrovata da sola a cercare di gestire il ristorante.
L’unico che aveva dimostrato affetto e cura nei miei confronti era stato Joseph “Joe” Blasio, il cuoco del locale, anche uomo di fiducia di mio nonno. Era un tipo piacente, pur se un po’ grezzo e, all’epoca della morte dei nonni, aveva trent’anni. Dunque, abbastanza giovane, ma sufficientemente maturo.
Mi ero affezionata a lui, anche se non sapevo bene quali erano i miei sentimenti. Forse amore, pensavo. Ma in realtà era riconoscenza per tutto quello che faceva per me.
Mi sembrò ovvio accettare di sposarlo e così, a vent’anni, ero già moglie e madre di Joseph jr, un bellissimo maschietto.
Dopo la nascita del bambino, i rapporti tra me e mio marito cominciarono a raffreddarsi. Lui mi trattava come se fossi una ragazzina (un po’ lo ero) e, benché fossi io la proprietaria del ristorante, non teneva in minima considerazione le mie idee in merito.

Trascorsero gli anni, praticamente la mia gioventù. Dormivamo in camere separate, io mi occupavo di Joseph, ma non troppo, dato che mia suocera era sempre presente e direttiva.
In effetti, mi sentivo sola, se non fosse stato per Miss Grazia, la mia istitutrice, ora diventata amica e dama di compagnia.
Lei era l’unica a parlare con me e la sola che si rendeva conto del mio disagio. Per passare meglio le giornate, continuai gli studi, seguendo un corso di letteratura italiana. Così la sera, con la mia unica amica, parlavamo di libri e di autori e il nostro preferito era Pirandello.
A me, in special modo, quei personaggi spesso ambivalenti, con curiose vicende e incertezze sostanziali, piacevano molto. Li sentivo vicini. Anch’io ero in cerca di autore, probabilmente.
Crescendo mio figlio era diventato la copia esatta di suo padre e, come lui, aveva preso a trattarmi con sufficienza.
Io ero solo una donna e neppure tanto pratica. Loro erano uomini e dirigevano, disponevano e comandavano.
Non ho mai avuto un carattere ribelle, così, benché piuttosto infelice, avevo tirato avanti senza farmi domande, limitandomi a fuggire dalla realtà attraverso libri e film e qualche viaggio in compagnia di Miss Grazia.

Era ormai il 2001. Joseph aveva diciotto anni e io solo trentotto. Ci scambiavano per fratelli, ma a lui non faceva piacere. Era imbarazzato, non rappresentavo il suo modello di madre (incarnato dalla nonna), imponente e volitiva. Una donna giovane, magra, perennemente in jeans, secondo il suo metro, non era una vera madre di famiglia. Così mia suocera si era sostituita a me in ogni decisione.
Praticamente, lei e suo figlio costituivano insieme a Joseph un nucleo familiare da cui io ero di fatto esclusa.
Fu durante una breve vacanza a Orlando (con Miss Grazia, naturalmente) che conobbi Carl. Anche lui gestiva un ristorante italiano, appunto “La piccola Venezia”, e altre attività in quella bizzarra città non-luogo.
Lui era mio coetaneo, divorziato e senza figli. Ci riconoscemmo subito. Capii che ciò che mi aveva legato a mio marito era cosa ben diversa dall’amore e dalla passione. Ma come avrei potuto divorziare, con che coraggio avrei detto a Joe, Joseph e a mia suocera che mi ero innamorata e me ne volevo andare?
No, non sarei mai riuscita a farlo.
Miss Grazia, che mi ha sempre voluto bene, diceva che non potevo continuare a non vivere, che dovevo seguire ciò che mi suggeriva il cuore. Io, però, non me la sentivo. Così ripartii da Orlando, decisa a chiudere con Carl.
Ma lui, un mese dopo, mi raggiunse a New York.
Erano i primi di settembre del 2001. La passione scoppiò più forte che mai tra di noi. Trascorrevamo intere giornate insieme (tanto nessuno mi cercava) e la sera tornavo a casa felice, ma distrutta dal senso di colpa e dalla sensazione di non avere vie d’uscita.

La mattina dell’11 settembre avevo dato appuntamento a Carl nei pressi delle torri gemelle.
Bevemmo un caffè e cominciammo a camminare.
«Carl — gli dissi — io non me la sento di venire via con te, ti amo, ma non so come fare».
Lui mi abbracciò stretta e mi baciò dolcemente.
L’ultimo bacio — pensai.
In quel mentre scoppiò il finimondo.
Non c’è bisogno che lo descriva. Palazzi che crollavano, fuoco, terrore, e polvere, tanta polvere.
In un solo secondo presi una decisione. Lanciai lontano il mio cellulare, presi per mano Carl e cominciai a correre via, più in fretta possibile, da quel luogo di terrore.
Corremmo a lungo, tra il fumo e l’irrealtà di quel giorno.
Mentre correvo, mi venne in mente Il fu Mattia Pascal, quel personaggio pirandelliano che si era dato per morto.
Ecco, io sarei stata la fu Maria Canal, scomparsa durante un evento tragico, dispersa. Forse avrebbero ritrovato il mio telefono, chissà…
Ma non mi importava più.

E adesso, da oltre diciassette anni, vivo qui, a Orlando.
Ho preso il nome Lucy, in onore di mia nonna Lucia e uso il cognome di Carl, Rossi.
Abbiamo avuto un figlio nel 2002, Peter, delizioso e raffinato, niente a che vedere col mio primogenito.
La mia vita numero uno è cancellata, grazie anche a documenti falsi che Carl si è procurato a caro prezzo.
Sono felice, direi. Non mi manca NY e neppure la mia famiglia.
Da qualche tempo mi sono iscritta a Facebook sotto un ulteriore falso nome e con fotografie prese dal web. Ho ritrovato mio figlio (ormai trentaseienne e identico al padre). Vedo che sta bene, è sposato e lavora nel ristorante.
Ho rintracciato, pur senza palesarmi, anche Miss Grazia, dato che pensavo di mancarle, ma la cosa sorprendente è che si è sposata col mio ex marito.
Dunque, direi che siamo tutti più felici.
La signora Lucy Rossi di Orlando è senz’altro una donna più soddisfatta della ragazza di New York, tanto per dirla con Pirandello, la fu Maria Canal: suona bene, non è vero?

Fulvia Perillo

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