Fuga dalla Rottenmai

Adelaide stava per compiere ottantotto anni. Per essere tanto avanti con l’età, si poteva ancora definire una bella donna.
L’alta statura e il portamento elegante la facevano sembrare più giovane e i grandi occhi azzurri un po’ sognanti continuavano a suggerire una dolcezza antica, benché sul suo viso non mancassero le rughe.
L’unica cosa a essere cambiata, negli ultimi anni, era la memoria. Non le venivano in mente alcune parole, si confondeva con le date di nascita dei suoi figli e ancor più con quelle dei nipoti.
In verità la sua prima nipotina, Gaia, era diventata mamma da poco. Dunque, lei era bisnonna, ma proprio non riusciva a ricordare il nome del piccino.
Meno male che c’era Clara, la sua amica del cuore, che, pur novantenne e in sedia a rotelle, ricordava tutto con precisione.
“Si chiama Andrea il bambino. Cerca di tenerlo a mente”.
“Grazie, Clara, ma vedi, non lo faccio apposta”.
Da più di due anni, le due signore si erano ritirate in casa di riposo.
Per libera scelta, sottolineavano.
Adelaide era rimasta vedova e non voleva pesare sui figli, né prendere una badante, ma non se la sentiva più di vivere da sola.
Clara, invece, da sola aveva sempre vissuto, ma ora che non camminava più sarebbe stato difficile gestire completamente la sua vita.
Così, dato che la loro amicizia durava da circa ottant’anni, avevano deciso di andare a vivere nella nuova residenza, pulita e piena di ogni comfort, che di recente era stata costruita nella loro città.
Tutto andava per il meglio, il personale era gentile, l’ambiente ordinato e sereno.
Adelaide aveva venduto la sua casa e diviso il denaro tra i figli. Con la sua pensione e ciò che le aveva lasciato il marito, poteva ben pagare la retta. Anche Clara non aveva problemi in tal senso, essendo stata una dirigente regionale e, oltretutto, ricca di famiglia. Erano due vecchiette benestanti, diceva la stessa Clara, e anche fortunate ad avere una amicizia così salda.
I figli di Adelaide si vedevano di rado, un po’ più spesso i nipoti. Bisognosi di mance, pensava la nonna.
Comunque li vedeva volentieri.
Ma la vera compagnia era quella di Clara.
Avevano condiviso ogni passaggio della loro vita.
Adelaide fidanzata e poi moglie, madre, insegnante elementare.
Clara, invece, molte volte fidanzata, ma troppo indipendente, non si era mai decisa per il matrimonio. Si era però laureata e aveva avuto ruoli importantissimi in Regione.
Ora erano entrambe anziane e sole, molto dignitose e tranquille, però.
Così, vivevano l’ultima parte della loro vita in quella struttura in cui non mancavano le comodità.
L’unico aspetto che non le convinceva era l’atteggiamento della direttrice, la signorina Matelda Rottenmai.
Intanto era strano che si facesse chiamare signorina, era praticamente l’unica nell’Italia del 2010. Perché non signora o dottoressa (era laureata in pedagogia, avevano scoperto) o semplicemente direttrice. No, lei voleva che tutti le si rivolgessero chiamandola “Signorina Rottenmai”, sia che fossero collaboratori, ospiti o familiari in visita.
Vestiva sempre di scuro, Matelda, variando dal nero all’antracite, raramente grigio fumo. Indossava tailleur di buon taglio, per lo più con la gonna, talvolta con i pantaloni. La sua età era indefinibile. Cinquanta, sessanta? O forse meno? Nessuno lo sapeva.
Era magra e ossuta, con i capelli raccolti in uno chignon tirato e senza fronzoli. Il viso non sarebbe stato brutto, ma l’assoluta mancanza di trucco la faceva apparire un po’ sbiadita.
La cosa che infastidiva Adelaide e Clara era l’atteggiamento di superiorità paternalistica che la Rottenmai aveva con tutti.
Lei era la depositaria del giusto e del sapere e perciò gli altri si dovevano conformare alle sue idee ed essergliene grati.
Così il personale, composto quasi esclusivamente da donne, era diviso in buoni e cattivi.
I buoni erano quelli che si adeguavano pedissequamente alle direttive e omaggiavano la direttrice con considerazioni di questo tipo: “Meno male che c’è lei, signorina Rottenmai”, “Senza di lei, signorina Matelda, questo posto sarebbe un inferno, nel caos”.
I cattivi, invece, erano coloro che cercavano di esprimere considerazioni personali o proporre innovazioni. O anche soltanto chiamavano la Rottenmai direttrice e non signorina.
Per quanto riguardava gli ospiti, erano tutti molto anziani, generalmente sopra gli ottantacinque, molti vicino al secolo di vita, un paio addirittura ultracentenari.
Si può dunque capire che la maggior parte di loro non avesse alcuna velleità di contrapporsi alla direttrice.
Per molti di essi, poi, le cose del mondo erano abbastanza lontane e vivevano in un microcosmo in cui le uniche cose importanti erano gli orari dei pasti, il dolce di fine pranzo e l’attenzione degli infermieri.
Ma Clara, per temperamento e per storia personale, non era disponibile a omaggiare la volitiva Matelda.
Lei era stata una importante dirigente, aveva gestito ingenti somme di denaro e numerose risorse umane. Sapeva il fatto suo. Purtroppo, dopo un’ischemia cerebrale, le sue gambe le rispondevano poco e dunque trascorreva il suo tempo in carrozzina.
“Sono solo invalida, non scema” diceva spesso all’amica Adelaide.
“Certo, cara, non c’è dubbio. Sei parecchio più lucida di me e perfino di qualcuno dei miei nipoti che si fanno le canne”.
“Sì, ma il fatto è che la Rottenmai non se ne rende conto. Mi vuole gestire, la stolta. Ma non mi avrà mai in suo potere”.
Così, Clara si rifiutava costantemente di seguire le regole della casa, almeno quelle che non condivideva. Non voleva guardare la TV nel salone con gli altri ospiti, ma si era fatta portare dai parenti un televisore che teneva in camera, con grave disappunto della direttrice.
Ma la questione più spinosa era la riabilitazione.
La casa di riposo aveva una grande palestra dove gli anziani seguivano programmi di fisioterapia e riabilitazione.
La Rottenmai, in accordo col medico, aveva stabilito che Clara dovesse effettuare due volte alla settimana esercizi in palestra, con una giovane fisioterapista di nome Bea (Beatrice, ma tutti i vecchietti la chiamavano col diminutivo).
La ragazza era molto brava e Clara riteneva che l’aiutasse davvero, ma era anche convinta che due trattamenti settimanali fossero pochi e che avrebbe dovuto intensificare la terapia per sperare in un risultato.
Non solo. Lei riteneva che sarebbe stato meglio, specie durante la bella stagione, poter eseguire gli esercizi non in palestra, ma all’aperto.
Ma la Rottenmai era irremovibile. Due volte e rigorosamente al chiuso.
“Signorina Rottenmai – le disse un giorno Clara – con l’aiuto di Bea sto migliorando e forse potrei anche rimettermi in piedi, ma devo fare esercizio più spesso, sono disposta a pagare degli extra per questo. Inoltre, vorrei andare al parco o magari anche in spiaggia, ora che la primavera è inoltrata”.
“Signora Clara – rispose la Rottenmai, quel giorno vestita di nero e particolarmente funerea – Non se ne parla proprio. Questa è una residenza per anziani, non un centro benessere e decido io in accordo col dottore. E poi lei ha già compiuto novant’anni. Francamente le probabilità di camminare nuovamente sono basse”.
E, senza neppure salutare, girò i tacchi e se ne andò.
Clara era furibonda e ne parlava con l’amica.
“Adelaide, ma ti rendi conto? Una prepotente, peccato che non sia una mia dipendente, gliel’avrei fatto vedere io. Purtroppo, però, la proprietà della struttura è di una società che ha sede a Roma. Non c’è neppure modo di protestare”.
Adelaide era dispiaciuta. La sua amica manteneva la vivace intelligenza di sempre, era sempre la stessa, volitiva e decisa, con le idee chiare. Molto più delle sue, pensava Adelaide, che ogni giorno si sentiva più incerta su molte cose, sui nomi e sui ricordi.
Però, lei stava benissimo fisicamente, camminava senza appoggio, digeriva, dormiva bene, mentre Clara, oltre a non camminare, aveva problemi col sonno e soffriva di gastrite.
Disturbi che si stavano accentuando per le costanti arrabbiature con la Rottenmai e conseguente frustrazione.
Il martedì e il giovedì Clara continuava la fisioterapia e Adelaide le faceva compagnia eseguendo esercizi insieme a lei.
Bea aveva molta simpatia per le due donne, forse le uniche tra tutti gli ospiti, con cui fosse possibile scambiare qualche opinione e avere conversazioni di senso compiuto. Avrebbe voluto aiutare Clara e soddisfare i suoi desideri, ma temeva la Rottenmai, pur essendo nella lista dei cattivi per troppo poca deferenza nei suoi confronti.
Di tanto in tanto Vittorio, il suo fidanzato, passava a trovarla. Lui lavorava come corriere, consegnava pacchi in giro per la provincia.
Essendo particolarmente affabile, aveva stabilito un buon contatto con le due anziane signore e, confidenzialmente, le chiamava zia, zia Clara e zia Dade. Loro ne erano felici: un così bel giovane, tanto comunicativo, scherzoso, sapeva sempre come rallegrarle e riusciva a scherzare in modo educato.
Una mattina, era maggio inoltrato e si sentiva il profumo della primavera attraverso le finestre, Clara aveva appena terminato la fisioterapia e Vittorio arrivò per consegnare un pacco.
“Zia Clara, come va? La vedo in forma”.
“Sì, fisicamente sto benino, ma quella strega non mi permette di recuperare, non ci crede. Invece io lo so che potrei tornare a camminare, non sono paralizzata”.
Vittorio rifletté qualche minuto.
Poi parlò. “Senta, Clara, ho una casetta in collina, dei miei nonni, ma ormai non ci abita più nessuno. Se vuole, io la porto lì e facciamo venire Bea tutti i giorni”.
“Ma come facciamo? La Rottenmai non mi darà mai il permesso”.
“È semplice: fugga. Lei è capace di intendere e di volere, non è sotto tutela. Portiamo anche la zia Dade, così non è sola”.
Decidere fu un lampo. A Clara sembrava un’occasione imperdibile. Adelaide non aveva capito del tutto, ma era disponibile a seguire l’amica. Bea era atterrita, ma Vittorio la tranquillizzò. Nessuno avrebbe mai saputo che c’entrava qualcosa.
Così, la sera stessa, verso le dieci, le due anziane signore, si fecero trovare in prossimità dell’uscita posteriore della casa di riposo.
Vittorio le caricò in macchina, carrozzina compresa, e le portò in una deliziosa abitazione che sembrava uscita da una fiaba. Su una collinetta verde e in prossimità di un bosco, con tanti alberi dalle foglie fruscianti e dalle ampie chiome.
Le due donne si organizzarono subito. La mamma di Vittorio aveva portato la spesa e si offrì di cucinare per loro e fare le pulizie.
Nel primo pomeriggio, Bea arrivò un po’ impensierita, ma felice di vedere Clara tanto soddisfatta.
Raccontò che alla casa di riposo erano tutti fuori di sé per la scomparsa di Adelaide e Clara, erano arrivati anche i figli di Adelaide, furibondi con la Rottenmai che, umiliatissima, aveva dovuto sottostare a domande della polizia e rimostranze dei parenti.
Clara e Adelaide ridacchiavano, era divertente aver creato tanto scompiglio, alla loro età.
Trascorsero alcuni giorni di incredibile felicità. Clara si esercitava quotidianamente con Bea e Adelaide le osservava compiaciuta.
La mamma di Vittorio cucinava molto meglio delle cuoche della struttura. Per la prima volta dopo due anni, Clara riuscì a dormire senza sonnifero.
La mattina del sesto giorno, mentre facevano colazione sullo spiazzo antistante alla casa, Clara pregò Adelaide di darle il braccio.
La mamma di Vittorio le guardò un po’ preoccupata e quale non fu la sua meraviglia quando vide Clara alzarsi e muovere alcuni passi.
Adelaide si emozionò e le uscì qualche lacrima.
Clara aveva raggiunto il suo obiettivo: stare in piedi e camminare, pur con qualche difficoltà.

EPILOGO

Una settimana dopo, le due fuggitive decisero di tornare nella casa di riposo, ma, per non compromettere Vittorio, fecero chiamare un taxi.
La Rottenmai era un’altra donna: più mite, stanca, arresa.
La misteriosa fuga delle due ospiti aveva minato la sua sicurezza e messo in discussione il suo operato.
Il fatto poi che Clara fosse in grado di camminare col bastone, ma con una certa sicurezza, la spiazzò del tutto, tanto che il mese dopo si fece trasferire in un ufficio amministrativo del Comune.
Arrivò una nuova direttrice, più giovane e colorata, con idee totalmente diverse dalla sua predecessora, che vivacizzò molto la struttura e fece amicizia con Clara e Adelaide che chiamava scherzando “le rivoluzionarie”.
Loro mantennero il segreto sulla loro fuga e vissero serenamente, con la certezza della loro amicizia e la positività della loro indole.

Fulvia Perillo

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