NarrAzioni: divagazioni attorno al titolo di una collana editoriale

Finalità di questo scritto è aprire una discussione attorno all’atto del narrare. No, non si tratta di fornire un ulteriore contributo all’annosa questione su cosa sia Letteratura e cosa no, ma di riflettere su che cosa può rappresentare, per chiunque senta il desiderio di produrre finzioni, prendere una sedia, individuare un masso, un posto qualsiasi dal quale cercare di raggiungere altre persone con una storia. Per cercare di far capire meglio quel che vuol dire per me raccontare muoverò da un esempio fin troppo illustre.

Per molto tempo ho interpretato la novella di Ser Ciappelletto, con la quale si apre il Decameron, esclusivamente in un’ottica che potrei definire otto-novecentesca, consolato nell’anticlericalismo personale dalla critica che al sacramento della Confessione, alla superstizione ed alla credulità popolare traspare nel racconto di Panfilo, uno dei giovani dell’allegra brigata messa insieme da Giovanni Boccaccio. Così liquidavo la nota beffa con cui “il piggiore uomo forse che mai nascesse”, conclude la sua vita sregolata, ingannando il povero frate che lo deve assolvere dai peccati con un racconto di lievi misfatti – trascurabilissimi rispetto a quelli che si dice avesse compiuti – costruiti con straordinaria abilità retorica.

Tale lettura non è da archiviare: leggere nella novella del notaio pratese anche una polemica contro l’istituzione del confessionale, primo potente strumento di data mining e controllo sociale, può forse apparire tendenzioso, ma indubbiamente si rivela molto interessante nella fase di pandemia attuale, segnata dall’intensa riflessione pubblica su misure ed applicazioni tecnologiche che, pur accettate nell’emergenza da Covid-19, hanno mostrato un potenziale distopico rilevante, in linea con la diffusa consapevolezza del fatto che da anni le nostre vite sono sottoposte ad una sorveglianza sempre più pervasiva attraverso il web, un controllo cui sono soggette le nostre abitudini, i nostri gusti, le nostre passioni anche più segrete. Come noto quella di suggerire aperture di significato sempre nuove, ben oltre il contesto storico in cui sono state concepite, è una caratteristica peculiare delle più grandi opere letterarie, tuttavia, dal momento che l’intento dichiarato di queste righe è quello di proporre alcuni spunti per un confronto sull’atto del raccontare, per una meditazione leggera che funzioni anche come cornice ad una collana editoriale di NarrAzioni contemporanee, intendo congelare questa chiave di lettura, che resta comunque una delle possibilità interpretative, per concentrarmi su un’altra dal sapore decisamente metalinguistico.

Uno degli aspetti della novella di Ser Ciappelletto sul quale inizialmente mi ero soffermato in modo superficiale era il fatto che Boccaccio avesse deciso di aprire proprio con quella: la prima novella della prima giornata. Una posizione fondamentale. Perché questo? Poteva esserci altro oltre la polemica di un intellettuale del Trecento contro la Confessione o la superstizione e le credenze popolari? Poteva esserci altro oltre le interpretazioni che vedono il Decameron come un percorso ascensionale verso la virtù che muove dal fraudolento ingannatore pratese per arrivare all’esempio di temperanza ed umiltà di Griselda con cui si chiudono le dieci giornate dei giovani in fuga dal contagio? Sì, c’era dell’altro, ma non ero riuscito a vederlo con chiarezza.

Rileggendo la novella a distanza di anni iniziai a dar peso ad un tratto di Ser Ciappelletto che avevo sempre trascurato: è un narratore, un narratore che parla di sé. Lasciamo per il momento perdere quel che racconta, basti ricordare che è un personaggio che per il suo pubblico diretto, nel caso specifico il frate ignaro che ne raccoglie le estreme parole, è un narratore che si muove entro quel genere che oggi potremmo dire, forzando un po’ le definizioni, “autofiction”. Si tratta però di una figura di cui il narratore di secondo grado, Panfilo, ci riferisce indole criminale, violenze, truffe, perfino orientamento sessuale, prima di raccontarci come si faccia beffe del confessore nell’estremo atto di pentimento. Noi abbiamo dunque due personaggi, perché anche Panfilo lo è, che raccontano. La domanda, apparentemente sciocca, che permette di fare un passo decisivo dentro questa riflessione è la seguente: chi ci dice che Panfilo sia più attendibile di Ser Ciappelletto? Chi ci dice che non siano inventate ed esagerate anche le cose dette da Panfilo? Perché siamo portati a credere al giovane narratore dell’allegra brigata? Si potrà dire che altrimenti lo schema della beffa non funzionerebbe, si potrà dire che Panfilo appare come vicario, assieme agli altri suoi compagni, del narratore di primo grado e quindi il lettore trasferisce a lui la tradizionale fiducia che, secondo il patto autore-lettore, deve al Boccaccio; c’è tuttavia qualcosa di più interessante che distingue i due narratori e quindi i due racconti.

 

Analizziamo in breve gli atti narrativi in gioco muovendo dall’inganno orchestrato ai danni del frate. La beffa funziona, l’abbiamo detto, per l’abilità retorica con cui Ciappelletto enuncia, spacciandoli per gravi peccati, leggerezze e cose da niente, ma soprattutto perché, è lo stesso Panfilo a dircelo, “chi sarebbe colui che nol credesse veggendo un uomo in caso di morte dir così?”. La morte come momento supremo della vita in cui cade ogni finzione, in cui ogni buon cristiano, rassegnato al trapasso, dovrebbe aprire il suo cuore e liberarsi la coscienza con la massima sincerità non sembra però spaventarlo: aveva fatto tante gravi azioni in vita sua contro “domineddio” che una in più non avrebbe fatto differenza, dice chiedendo l’assistenza di un religioso ai due fratelli presso i quali alloggia, imbarazzati dalla eventuale morte nella loro casa di un personaggio così losco. Il moribondo riceve l’ultima benedizione mentre, nella stanza attigua, i suoi ospiti oscillano tra il riso per l’inganno attuato e la seria perplessità per come quell’uomo, che si sarebbe trovato di lì a poco dinanzi al giudizio divino, non voglia rinunciare alla sua ultima perfida beffa. C’è da immaginare che i due fratelli, nel loro giro di usurai, mercanti e spregiudicati uomini d’affari di quel lontano secolo, abbiano poi raccontato l’impresa estrema del notaio, garantendogli una discreta fama (come sarebbe finito, altrimenti nel repertorio cui attinge Boccaccio?). E c’è forse da credere che la falsa confessione fosse confezionata ai danni del frate soprattutto per quel ridottissimo pubblico, i due fratelli, confidando nel fatto che poi l’avrebbero divulgata a molti altri del loro mondo, una nicchia di pubblico che al notaio premeva senz’altro raggiungere; l’inganno finale di Ser Ciappelletto sotto tale aspetto diviene tessera preziosa di un’(anti)epica mercantile di cui il Decameron costituisce uno splendente mosaico. Ma se Ciappelletto non avesse intuito oltre la parete la presenza dei suoi due ospiti, per chi avrebbe ideato la sua beffa? Sicuramente lui non avrebbe potuto ridere delle conseguenze delle sue menzogne, conseguenze che lo avrebbero visto addirittura passare per santo, un santo che poi, stando al racconto di Panfilo, divenne oggetto di venerazione in quel posto in Borgogna dove finì i suoi giorni. Uomo del suo tempo, Ciappelletto sapeva che se il trapasso gli avesse dato conferma dell’esistenza di quel dio che aveva tante volte offeso in vita sua egli sarebbe finito direttamente tra le fiamme infernali; l’aver concepito con abilità di narratore l’inganno si configura dunque come atto da inquadrare in una prospettiva tutta terrena. C’è la gloria nell’alto dei cieli, ma c’è anche quella tra gli uomini, da perseguire con la composizione dell’immagine di sé da lasciare ai posteri. Incapace o niente affatto intenzionato a liberarsi della visione tutta mondana che aveva guidato ogni momento della sua vita Ciappelletto, di fronte all’inferno cui lo destina Panfilo, si conquista la fama nel mondo, ma non gliene basta una poiché vuole una fama duplice e di segno opposto: uno degli uomini più malvagi che fosse mai vissuto e uno dei più buoni ed onesti.

Che cosa caratterizza dunque l’atto narrativo di questo personaggio? Che è vincolato ad un interesse personale. Ser Ciappelletto, ad un passo dalla fine si prende l’unica rivincita che può prendersi sulla morte, preoccupandosi di acconciare come vuole il proprio passaggio nel mondo e compone un racconto di sé la cui finalità sembra essere soprattutto quella di sdoppiare la propria immagine lasciando ai posteri due versioni antitetiche: una maledetta e sovraccarica dell’ultimo imperdibile aneddoto per chi lo aveva sempre conosciuto e ne tollerava stile di vita e visione del mondo, una nuova e illuminata di grazia per chi non sapeva come avesse condotto la sua esistenza. In ogni caso la sua vicenda terrena sarebbe stata salva, pur sotto il segno dell’ambiguità. Quel che sarebbe avvenuto dopo la sua morte sarebbe stata un’altra storia, ma non sembrava preoccuparlo. Molto probabilmente, parafrasando, lui preferiva l’inferno, per la compagnia.

Da una posizione completamente diversa si rivolge al pubblico Panfilo. Sarebbe sufficiente notare l’insistenza sul “noi” che connota i suoi interventi, un noi che non è plurale di maestà, ma indizio di un comune sentire entro i limiti di un’area etica e culturale definita, del desiderio di convergere su valori da condividere o sui quali discutere per capire come il suo racconto si apra verso gli altri, verso i compagni che lo circondano, verso il pubblico ideale e allargato dell’opera di Boccaccio. La novella di Panfilo, come quelle raccontate dagli altri ragazzi dell’allegra brigata, è una storia per resistere mentre intorno infuria l’epidemia, è un racconto che ricorda il mondo com’era per ritornare a vivere dopo un contagio che aveva portato al declino civile e morale, un declino che aveva fatto registrare l’estremizzarsi di comportamenti già presenti nella società tardo-medievale prima di quel 1348 in cui divampò la morte nera.

 

Ritengo quindi che si possa vedere l’atto narrativo del giovane Panfilo come un gesto liberale. Di “prontezza di liberalitade” aveva parlato Dante Alighieri nel Convivio, spiegando uno dei motivi per cui aveva scelto di scrivere quell’opera in volgare; era una formula breve in cui si sintetizzava il concetto di Letteratura destinata a giovare nel modo più proficuo possibile ad un pubblico individuato, una Letteratura in grado di fornire insegnamenti, occasioni di crescita e costruzione personale ai suoi fruitori. Il Decameron, con la leggerezza dell’intrattenimento che pervade molte delle famose cento novelle, è racconto di racconti che si configura come offerta di storie munifica e generosa. Per questo possiamo dire non casuale il fatto che l’opera inizi con il racconto di Ser Ciappelletto, artificio retorico che sarebbe stato destinato a rimanere sterile o per lo meno autoreferenziale, senza l’esordio e la conclusione della novella arricchiti dal commento di Panfilo. Questi appare ai nostri occhi degno di fiducia non solo perché incaricato di condurre il gioco, ma anche perché le sue parole sono svincolate da interesse personale diretto. All’inizio quel che preme al Boccaccio è delimitare il campo del narrare e soprattutto di questo ci parla la prima novella della prima giornata. Tutto può diventare narrazione, ma non tutte le narrazioni hanno la stessa onestà e la stessa leale sincerità anche se costruite in modo impeccabile.

Penso che, pur tra mille ostacoli – leggi di mercato, lunario da sbarcare, ambizioni letterarie e tentazioni di un successo che a tutti farebbe piacere – la prima difficile conquista per chi decide di narrare storie sia quella di mettersi di fronte alle pagine bianche su cui si ha intenzione di far comparire persone e cose con grande franchezza ed atteggiamento liberale, dove “liberale” non vuol dire “libero” e non allude, ovviamente, alla libertà di raccontare tutto quel che passa per la testa. Assumere un atteggiamento liberale nell’atto di narrare vuol dire per me lavorare per cercare di comprendere cosa possa essere importante per un lettore oggi, cosa possa suscitare in lui domande, riflessioni, cosa possa aggiungere qualcosa alla percezione del mondo e dell’epoca in cui viviamo, senza rassicurarlo, senza farlo stare troppo comodo nella sua poltrona. Dicendo questo certo non si dice niente di nuovo come non si aggiunge niente di nuovo se si afferma di porsi come obiettivo complementare quello di evitare la dittatura delle proprie esigenze espressive dissolvendo energie in un artificioso narcisismo, ma sono concetti sui quali ogni tanto è bene ritornare. Se, per quel che si è detto finora, una storia può essere concepita come dono è necessario chiedersi quanto i destinatari di questo dono possano usufruirne nel modo che garantisca il maggior profitto spirituale e la maggior crescita culturale possibile. E se ritengo importante indagare la realtà per trovarvi temi che possano far riflettere il lettore, considero fondamentale che le problematiche proposte lo facciano meditare perché in primo luogo hanno colpito me, mi hanno disturbato e mi disturbano in quanto uomo del mio tempo. Scrivere è per me anche tentare di distoglierci dall’accettazione passiva della forma del mondo in cui viviamo. Una volta individuati, gli argomenti ritenuti degni di interesse possono essere riversati poi in opere riferibili a generi diversi tra loro: scrittura autobiografica, narrativa ibrida, giallo/noir, fantasy, romanzo. Ognuno suona le corde che vuole, ma la melodia prodotta deve avere distorsioni tali da suscitare domande.

Questo comporta la scelta di un luogo dal quale narrare, un luogo che è metaforicamente costruito sulle posizioni personali, etiche, culturali, ideologiche che vanno a connotare l’atto narrativo, posizioni che devono trasparire nell’enunciato complessivo con sufficiente chiarezza. Dare le “coordinate” del posto dal quale facciamo uscire il nostro racconto non significa fornire le chiavi interpretative, né assegnare un punto di vista obbligato, bensì concedere all’ipotetico lettore la facoltà di sistemarsi metaforicamente dove preferisce, lasciandolo libero di muoversi nello spazio ideale della narrazione. Se so da dove qualcuno mi parla posso mettermi accanto a lui, di fronte a lui oppure defilato. Ho accennato più volte alle diverse linee interpretative che arricchiscono l’insieme della prima novella del Decameron: il lettore “entra” nella storia dove può individuare una serie di percorsi tematici, più o meno interessanti, sui quali muoversi, eppure nel testo l’ideologia religiosa e la visione del mondo di Panfilo emergono con chiarezza. Ciappelletto invece è costretto a letto dalla malattia che lo sta uccidendo, ma solo il suo corpo è fermo, la lingua e la fantasia mobilissimi, inafferabili; così il frate si inchioda, come di rito, al capezzale del confesso e lì resta con tutta la sua faciloneria, ingannato perché pensa che in quella situazione un racconto non possa che svilupparsi sotto il segno della sincerità. È un grave errore, ma la condanna non è tanto per la superficialità del confessore, quanto per un personaggio indimenticabile che ci ricorda come l’arte della parola può essere uno strumento di manipolazione.

 

David Parri

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