Ultima sigaretta (la coscienza di Zelda)

(racconto ispirato molto liberamente a La coscienza di Zeno di Italo Svevo)

Ecco, sono qui, a sessant’anni, per la… esima volta a scrivere su Facebook, Twitter e quant’altro: Ultima sigaretta.
Lo scrivo, ma è una bugia che dico a me stessa. Mi piace troppo aspirare quella scia tossica, velenosa, sorprendente…. Cosa potrei fare in alternativa?
Io, Zelda, figlia unica di un notaio e di un’ereditiera, piena di soldi, dice qualcuno. È vero, ma questa è stata più che una delizia, una croce sostanziale.
Lo so cosa pensano tutti, che sono viziata, fortunata, fannullona.
Vero, tutto vero. E pure fumatrice. Anche mio padre lo era, ma lui, per l’appunto, era maschio, professionista e vissuto in un’era in cui non si sapeva granché dei pericoli del fumo.
Io invece sono femmina, svogliata, non ho lavorato un giorno della mia vita, se per lavoro non s’intenda occuparsi di shopping, frequentare parrucchieri, estetiste e, negli ultimi anni, anche qualche chirurgo per ritocchini.
Dunque, privilegiata. Sì, ma annoiata, demotivata. Vagabonda.

Dopo la maturità, presa in ritardo per bocciature, mi iscrissi a Giurisprudenza.
Mio padre voleva lasciarmi lo studio. Mi viene da ridere, se ci penso.
Sono stata sei anni a Pisa, per studiare, dicevo. Ma ho dato un solo esame, “Storia del diritto romano”. E lì mi sono fermata.
In compenso, quello è stato un periodo di grande divertimento, serate pazze, fidanzati, feste, pianti e sigarette. Tante sigarette. E già allora scrivevo almeno una volta al mese, da qualche parte Ultima sigaretta.
Tornata a casa, dopo la non-laurea, ho cominciato a interessarmi del mio futuro, in modo alquanto confuso.

Avevo quasi ventotto anni, era l’ora di prendere marito, secondo mio padre.
Il suo praticante di studio mi piaceva, era un ragazzo carino e colto, molto educato e neppure fumava.
Essendo già notevolmente disinvolta, grazie agli anni di esperienza pisana, l’ho inviato a uscire più volte, ma lui nicchiava e mi ha proposto di vedersi, sì, ma non da soli. Lui si chiamava Aldo e aveva tre fratelli, Amilcare, Antonio e il piccolo Alessandro.
Abbiamo cominciato a uscire tutti insieme e dopo poco mi sono accorta che Amilcare, un po’ zoppo e strabico, si stava facendo delle idee su di me. Figuriamoci, ho pensato. Ma la cosa più sconcertante è stata che Aldo, anziché corteggiarmi o accettare la mia corte, si è fidanzato con la mia migliore amica, Katiuscia, scialba quanto mai, eppure…

Così, per fargli dispetto, ho cominciato a frequentare Amilcare, tanto, pensavo, poi Aldo si sveglierà.
Risultato: dopo tre mesi ero incinta e ho dovuto sposarmi di corsa con Amilcare, ancora studente di giurisprudenza, anche se prossimo alla laurea. In realtà non mi piaceva, ero innamorata di Aldo e ho provato a dirglielo anche il giorno delle mie nozze.
“Zelda – mi ha detto – hai sempre voglia di scherzare, dai, vedrai come sarai felice con mio fratello. E poi, tra qualche mese, mi sposerò con Katiuscia, tu mi farai da testimone”.
Già. Da testimone. Una con un nome da romanzo come me (mio padre era un cultore di Francis Scott Fitzgerald) battuta da una tipa che si chiama come un fotoromanzo…. No, via, non ci potevo credere. E invece sì.

Poi è nato mio figlio Oscar (il nome del nonno, dato che ci manteneva tutti) e l’anno dopo ho messo al mondo Paola (il nome della nonna, mia madre, che contribuiva a garantirci pane e companatico in abbondanza).
Amilcare si è laureato e ha cominciato a lavorare in studio, mentre Aldo ha sposato Katiuscia e si è impiegato in un ufficio pubblico, perché la mia amica non voleva aver troppo a che fare con me. Era diventata gelosa, dopo che una sera, ma solo perché avevo bevuto, mi sono un po’ strusciata a suo marito durante una festa. Eh, che sarà mai.
In realtà la vera relazione extraconiugale, ben dieci anni dopo il matrimonio, non l’ho avuta con lui, ma con il terzo fratello, Antonio.
Ci siamo frequentati per parecchio tempo. Va bene, sì, era mio cognato, ma in fondo rimaneva tutto in famiglia.
Non so se mio marito abbia mai sospettato. Di bello c’era che Antonio, come me, fumava, mentre Amilcare non sopportava le mie sigarette, le bionde malefiche, le chiamava.

Si somigliavano anche, Antonio e Amilcare, mentre Aldo era decisamente più bello, ma di me non ne ha mai voluto sapere, neppure come amante occasionale.
Purtroppo, Antonio è morto di cancro al polmone a cinquant’anni e così è finita la nostra storia, tra fumo e lacrime.
Io, invece, benché abbia fumato senza riguardo, godo ancora di ottima salute e di questo mi sento in colpa, visto che anche Aldo, che non fumava, ci ha lasciato lo scorso anno a seguito di un infarto.

Ora siamo rimasti io e Amilcare. I ragazzi sono grandi e non vivono con noi.
Lui lavora sempre molto, porta avanti lo studio e contribuisce alla mia dispendiosa esistenza (anche se ciò che ho ereditato è largamente sufficiente).
Vado in analisi da vent’anni, sempre dalla stessa psicanalista, la dr.ssa Emme.
Non abbiamo concluso granché, ma mi aiuta parlare con lei una volta alla settimana, è un po’ costoso, ma almeno so che non va a raccontare i miei segreti, come potrebbe invece fare un’amica con cui dovessi confidarmi.
Anche perché sarebbe un po’ antipatico che si sapesse in giro della mia storia con Antonio e, dopo la sua morte, con il quarto fratello, Alessandro.
D’altra parte, è una famiglia che, tutto sommato, mi piace.
Però, dovrei smettere di fumare. Via, giù, oggi lo scrivo anche su Telegram: Ultima sigaretta.

Fulvia Perillo

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