Siepi alte e buon vicinato

 

 I

La mia insignificante esistenza di insegnante precario sembrava ormai avviata sui binari della più assoluta monotonia, quando, per un casuale gioco di graduatorie, il destino volle che dall’estremo nord fossi catapultato nella tranquilla provincia toscana. In realtà, devo dire che l’incarico annuale di Lettere al liceo classico di Pistoia non mi dispiacque affatto. Ero stanco di svegliarmi in mezzo alle montagne e di andare a letto con le galline, senza la possibilità di frequentare qualche cinema d’essai, un teatro, o anche la sala da biliardo in un bar che non chiudesse alle nove di sera. L’unico dispiacere era la separazione, speravo momentanea, dalla mia collega di educazione fisica Antonella De Rosa, anche lei confinata al liceo classico di Sondrio, dove l’avevo conosciuta e apprezzata per le sue straordinarie doti umane ma soprattutto per la sua avvenenza tipicamente mediterranea.

A essere sinceri, la nostra relazione era apparsa fin dall’inizio piuttosto problematica, dal momento che la mia aspirante fidanzata era già impegnata. E fin qui non ci sarebbe stato niente di male. Il problema era che il compagno di Antonella, tale Giammarco Rotella, titolare di una palestra di arti marziali a Secondigliano, oltre a essere geloso, aveva tutta l’aria di essere anche piuttosto permaloso. Almeno a giudicare dalle denunce per rissa e lesioni personali che onoravano la sua fedina penale.

Insomma, avrete capito che vivo da solo non per scelta ma per necessità. Questo spiega il perché, appena arrivato a Pistoia, non mi fossi accontentato di prendere in affitto il solito monolocale da single, ma mi fossi lasciato affascinare dall’aria familiare e vagamente fuori moda di un terra-tetto vicino al centro storico. Si trattava di una di quelle villette, in stile liberty povero, con tanto di giardinetto con la palma coloniale e il terrazzino di pietra un po’ scalcinata.

In agenzia, quando avevo firmato il contratto di affitto dicendo che ero solo, l’impiegata mi aveva guardato con un certo stupore. Il titolare, invece, mi aveva ammiccato con sguardo complice, immaginando chissà quali festini e orge fra precari debosciati.

Così, in una tiepida mattina di settembre, struggendomi al pensiero di Antonella che correva in tuta per i sentieri della Valtellina, mi insediai nella villetta di viale De Sanctis, trascinando due valigie stracolme di grammatiche e di romanzi gialli, oltre a una cesta nella quale stava mollemente adagiato il mio vecchio amico Catullo. Naturalmente avrete già capito che si trattava di un gatto. Nero, per la precisione. E non aveva affatto l’aspetto di un poeta. Semmai poteva essere comodamente scambiato per un vecchio pascià ottomano che, lungi dall’aver dimenticato le arti della guerra, si godeva in santa pace la meritata pensione.

Dopo aver infilato la chiave nella serratura, nello stesso istante in cui mi accingevo a entrare ufficialmente nella mia nuova dimora, una voce un po’ rauca ma gentile, proveniente dal villino accanto, mi fece sobbalzare: “Benvenuto, professore… Lei è professore, vero?”

L’anziana signora che mi aveva rivolto la parola sembrava un personaggio di altri tempi. Di sicuro il suo abbigliamento austero e un po’ dimesso era molto in sintonia con il viale, nel quale aleggiava una certa aria di riservato perbenismo. Almeno a giudicare dalle persiane chiuse o accostate e dai gerani ben curati che sbucavano fra le inferriate delle finestre.

A quel punto non mi rimase altro che posare i bagagli e presentarmi alla mia nuova vicina, cercando istintivamente di conformarmi il più possibile al prototipo di rispettabile professore che piace alle signore di una certa età. Non so francamente se ci riuscii o meno, dato che avevo la barba di tre giorni e la camicia con i polsini consumati.

Comunque, dopo questo primo frettoloso approccio, la signora Leda Pagnini – così si chiamava la mia vicina – sembrò prendermi in simpatia, tanto che un pomeriggio, vedendomi tornare affranto da un interminabile collegio docenti, mi invitò inaspettatamente a prendere un caffè da lei.

L’ingresso del villino della Leda, permeato di inquietante familiarità, sembrava uscito pari pari dai versi di un poeta crepuscolare: pareti verdoline con cornici di stucco sul soffitto, pesante lampadario in ferro battuto in puro stile sepolcrale inglese, poltroncina color rosso cardinale e cassettone con specchiera e gondola veneziana. Non mancavano neppure i ritratti degli antenati attaccati alle pareti, severi e composti nel loro abito della festa: arcigne matrone accanto a fanciulline ricciolute vestite di gale e a distinti signori con i baffi arricciati che guardavano impettiti verso un punto lontano.

“Mi scusi tanto, professore, se non l’ho invitata prima – esordì la mia vicina – ma qui da me non viene mai nessuno. Sa, praticamente, io sono vedova da sempre. Voglio dire che mio marito morì in guerra, pochi mesi dopo le nozze e io non me la sono mai sentita di rimpiazzarlo. Oddio, a essere precisi, il povero Osvaldo risulta ufficialmente disperso, ma, visto che non è più tornato, tutti l’hanno dato per morto. E io per prima.”

La Leda sospirò mandando indietro un ciuffetto di capelli bianchi, che portava tagliati a caschetto, proprio come le donne delle cartoline del primo Novecento. Poi, sorridendo con un’espressione volutamente ingenua, soggiunse: “Lei non crede che, se fosse stato vivo, sarebbe tornato?”

“Sicuramente” replicai un po’ impacciato, mentre, seduto sul divano del salotto buono, rigiravo fra le mani una tazzina decorata con la torre di Pisa e il Colosseo, senza trovare il coraggio di ingurgitare la brodaglia scura nella quale galleggiavano i fondi di quello che sembrava un orzo dei tempi di guerra.

“Lo vuole un biscottino?” mi chiese la Leda con impeccabile cortesia.

Non ebbi il coraggio di rifiutare le marie, che mi offrì dopo averle garbatamente adagiate sul centrino di un vassoio d’argento. A quel punto, nonostante il mio proverbiale cinismo, non potei fare a meno di farmi invadere da una vampata di tenerezza, nel veder riaffiorare inaspettatamente quell’antico biscotto della mia infanzia. Un biscotto in grado di evocare sensazioni ormai dimenticate. Insomma, mi sentivo un po’ come Proust quando si ingozzava di madeleine e gli tornava in mente il tempo perduto. Ma forse il confronto suonava un po’ pretenzioso .

Il fatto era che, invece di starmene disteso sul letto di casa mia a fumare e a leggere Simenon, mi trovavo ostaggio di un’anziana vedova dall’aspetto educato e fuori moda, che, fra l’altro, mi incominciava a incutere anche un inspiegabile disagio. E più ci pensavo e più la Leda assomigliava alla signorina Felicita di gozzaniana memoria. Non per essere pedante – come mi fa sempre notare Antonella tutte le volte che faccio dotti riferimenti – ma il suo salottino era veramente popolato da una miriade di “buone cose di pessimo gusto”: dal servizio di tazze con i monumenti italiani trionfalmente esposto nella vetrinetta (lo stesso di cui tenevo fra le mani un pregevole pezzo), alla pastorella di gesso con tanto di bastone infiocchettato, dal quadretto con le conchiglie incastonate (da lei stessa definito “prezioso ricordo” dell’unica vacanza a Rimini) alla Madonna di Lourdes di plastica, dono di un’amica devota. A essere pignoli, non mancava nemmeno il pappagallo imbalsamato.

“È la buonanima di Pippo – mi spiegò la Leda – c’ero tanto affezionata! Ora mi restano soltanto due ‘inseparabili’. Sa, quei pappagallini che non si lasciano mai … Si chiamano Bobby e Solo. Li vuole vedere?”. E, senza aspettare la risposta, mi fece strada verso il giardino sul retro. Quello che confinava con il mio e che si appoggiava direttamente alle antiche mura della città: una vera e propria oasi di verde a due passi dal centro storico.

La gabbietta con i due pappagallini stava appesa per mezzo di un gancio a un olivo nodoso che doveva risalire ai primi anni del secolo scorso. Del resto, tutto il giardino era in tono con la casa: una panchina e un tavolo in ferro battuto arrugginito dal tempo, un paio di grossi limoni, diverse azalee e un’opulenta ortensia azzurrina ormai quasi sfiorita che conferiva al giardino un delicato alone di malinconia. Ai due lati, come confine invalicabile, si ergeva una folta siepe di lauro. Una siepe silenziosa e guardinga, piantata chissà quanti anni prima, con lo scopo di custodire i segreti di un’intimità piccolo borghese, riservata e gelosa. “Una siepe tipicamente pascoliana… ” stavo per pensare fra me e me. Ma il pensiero di Antonella, che mi guardava ironica dalla sua cyclette, mi fece improvvisamente desistere dalla dotta citazione.

“Gli Inglesi dicono che le siepi alte fanno buon vicinato!” esclamò la padrona di casa intuendo forse i miei pensieri.

“È vero” replicai tanto per dire qualcosa.

Intanto la Leda aveva aperto l’usciolino della gabbia e, tirati fuori i pennuti, se li era appoggiati tutti e due su una spalla, rimproverandoli affettuosamente come avrebbe fatto con due nipotini dispettosi: “Gli parli, professore. Sono intelligenti e hanno un gran spirito di osservazione. Si figuri che conoscono le abitudini di tutto il vicinato. Stia attento che non svelino anche qualcuno dei suoi segreti…” E rise con l’allegra impertinenza di una ragazza di vent’anni.

A questo punto mi sentii in dovere di ripartire equamente i complimenti fra Bobby e Solo (che, a essere sinceri, mi sembravano alquanto affranti) e mi chiesi anche come avesse fatto un tipo come la Leda a farsi venire in mente simili nomi. Avrei più facilmente immaginato: Oreste e Pilade, Gianni e Pinotto o, tutt’al più, Bibì e Bobò. Ma forse la mia imprevedibile vicina era stata un’appassionata cultrice del Rock ‘n Roll.

Ormai stava scendendo la sera ma, nonostante tutto apparisse più indefinito, riuscii a intravedere un’ombra, là nel mio giardino, oltre la siepe di lauro. Era il vecchio Catullo che, accovacciato sulla tettoia dello sgabuzzino degli attrezzi, adocchiava con malcelata noncuranza la gabbietta vuota. Il suo era sicuramente lo stesso sguardo con cui si suppone che Maometto II osservasse le mura di Costantinopoli poco prima di conquistarla.

Erano già passate le sette e non vedevo l’ora di congedarmi ma, passando nella penombra dell’ingresso, lo sguardo mi si posò su una vecchia giacca, appesa all’attaccapanni in fondo alle scale. Era un indumento di foggia militare, consunto e sdrucito. Non so perché ma un leggero brivido mi percorse la schiena e avvertii subito un impellente desiderio di andarmene. La Leda sembrò intuire la mia inquietudine e, accennando all’attaccapanni, mi chiese: “Le sembra strano che conservi questa vecchia giacca di mio marito, vero? È una delle poche cose che mi rimangono di lui e preferisco tenerla all’aria, invece che chiuderla in un baule della soffitta. Sa, le tarme lavorano nel buio e mi dispiacerebbe che se la mangiassero. E poi così mi sembra che Osvaldo debba tornare da un momento all’altro. Sono anni che vado avanti con questa illusione. Le sembro matta, eh, professore?”

Finalmente, dopo avermi stretto vigorosamente la mano, la Leda chiuse la porta e mi augurò la buona notte. Ma, devo confessare che il sorriso indecifrabile che accompagnò il suo saluto mi lasciò di nuovo inspiegabilmente turbato.

 

II

La stessa sera, dopo una cena frugale a base di pizza surgelata, salii nella mia camera ancora invasa da qualche busta di plastica e da una miriade di libri sparsi sul parquet e aprii la finestra sul giardino di dietro. Sfrattando Catullo che dormiva appoggiai la schiena sul cuscino e piegai le ginocchia per sistemarci il portatile. Infine, dopo essermi soffermato un attimo a osservare un paio di stelle che sbucavano da dietro l’orologio del palazzo del Seminario, mi decisi a chiamare Antonella su Skype.

Per fortuna era in linea. Premetti immediatamente l’icona con il telefonino verde, che incominciò a squillare. Dopo qualche interminabile secondo, il mio ‘eterno femminino’ apparve sullo schermo in tutta la sua fulgida bellezza.

“Ti piace la mia nuova tuta della Nike?” cinguettò Antonella, folgorando la mia web camera con i suoi lunghi riccioli fiammeggianti.

“Magistrale!” replicai tanto per darle soddisfazione. In realtà a me sarebbe piaciuta di più con una lunga veste di seta nera e un filo di perle, ma era inutile insistere. Le mie fantasie erotiche non erano mai state di suo gradimento.

“Allora, come si sta in casa nuova? Dimmi, è vero che a Pistoia c’è il Festival blues?”

“Sì ma lo fanno di luglio. Comunque qui è tutto tranquillo. La casa è comoda ma per uno solo è decisamente troppo grande. Che ne diresti di raggiungermi per questo fine settimana?”

“Ma tu sei pazzo! Come faccio a venire da te, se sabato pomeriggio ho la corsa campestre e domenica la finale della maratona? E poi, se lo sapesse Giammarco, farebbe una carneficina. Mi dispiace, Piero ma non è proprio il caso!”

“Già, come dici tu, i tempi non sono ancora maturi”, replicai deluso ma non rassegnato, “e, a forza di aspettare, diventerò un vecchio professore frustrato e maniacale. Guarda che l’ambiente è quello giusto. I miei vicini hanno un’età media di settant’anni. A sinistra abita una vedova con una casa che sembra uscita da un film di Dario Argento e a destra un ragioniere dell’INPS in pensione. Vedessi che tipo! Si chiama Silla Cavallotti e sostiene di essere il discendente del famoso Felice Cavallotti…”

Ad Antonella il nome non diceva granché ma fece finta di sapere chi era. Per non doversi sorbire una lezioncina di storia delle mie.

“Immagino che non ci sia troppo da divertirsi, eh?” replicò tanto per dire qualcosa.

“A modo loro i miei vicini sono gentili e ospitali. Figurati che la vedova mi ha anche invitato a prendere il caffè da lei.”

“Stai attento, Pierino, che quella magari ti fa pure la corte. E un giorno ti trasforma in maiale come quella maga là, come si chiamava?”

“Vuoi dire Circe? Ma figurati, dovresti vederla! No, stai pure tranquilla, nessun tentativo di seduzione da parte sua. Però se devo dirti la verità, mi sembra un soggetto un po’ strano.”

“In che senso?”

“Non so… C’è qualcosa in quella casa che mi turba. Lo sai che tiene in bella mostra la giacca del marito morto più di sessant’anni fa?”

“E che c’è di strano? Si vede che gli voleva bene. Oppure che ha rimorso per avergli fatto le corna. E il Cavallini che tipo è? Per caso assomiglia a uno della famiglia Addams?”

“Vuoi dire il Cavallotti? Oh, quello è un tipo proprio bizzarro. E, da quello che ho potuto capire, fra lui e la vedova non c’è mai stato buon sangue. Lui dice che la Leda è pazza perché la notte fa le sedute spiritiche e parla con il marito. Lei, da parte sua, è convinta che Silla, a forza di attaccar briga con tutto il vicinato, finirà ammazzato in duello come il suo antenato. Insomma, un vero teatrino.”

“Bene, così non hai modo di annoiarti. Hai conosciuto qualcun altro?”

“Nella casa dopo quella della Leda ci sta un tipo incredibile: un tale Alex, un ragazzotto con le braccia e il collo ricoperti di tatuaggi, la testa rasata e il pit bull al guinzaglio. Uno che, secondo me, è bene tenere alla larga. Abita insieme a sua sorella, tale Dorotea… Una che, soltanto a vederla, è più di fuori delle terrazze. Pare che sia buddhista e ogni sera se ne sta sdraiata sul davanzale della finestra, con lo sguardo perso a fissare la luna.”

“E quando è nuvoloso che cosa fissa?”

“E che ne so? Non sto mica a spiare i vicini di casa.”

“E a scuola, come ti trovi?” continuò Antonella sbadigliando. Da qui capii che il nostro colloquio era arrivato al capolinea.

“Non male ma parliamo d’altro!” tentai di trattenerla.

“A proposito, come sta Catullo?” fece lei stirandosi con un gesto plateale.

“Oh, lui se la spassa alla grande. Vaga per i giardini miagolando ai merli e si infiltra nelle case razziando cosce di pollo e fette di salame. Speriamo che non faccia la festa ai pappagalli della Leda!”

“Speriamo.” ribatté lei poco convinta.

A questo punto, feci un ultimo tentativo di ravvivare la conversazione: “Vedo che sei stanca. Ti lascio, così vai a dormire. O forse non vedi l’ora di collegarti con Giammarco per svegliarti del tutto?!”

“Dai, Pierino, non essere infantile! Ti ho già spiegato che devo mantenere dei rapporti… diciamo… diplomatici con il mio fidanzato. Almeno finché non mi decido a chiudere questa storia. Ma sai che non è facile. Giammarco ha questo caratteraccio perché ha sofferto da piccolo e ha il terrore di essere abbandonato. E poi non è detto che, se lascio lui, mi metta con te. La distanza non aiuta certe storie. Senza contare poi che tu sei uno troppo assillante. Non sono ancora sicura che tu sia il mio tipo.”

“Quanti anni pensi che ci vogliamo per rendertene conto? Magari, se tu provassi a…”

“Buonanotte Piero, salutami i tuoi simpatici vicini di casa. E, mi raccomando, attento alla Circe!”

“Buonanotte, Antonella.” E mentre la sua chioma color rame svaniva inghiottita dallo schermo , una nuvola passeggera velò le due stelle che occhieggiavano da dietro l’orologio del Seminario.

Ormai erano già passate tre settimane da quando mi ero trasferito nel viale De Sanctis. Potevo dire di sentirmi quasi a casa mia. Mi sembrava persino che quei giardinetti ordinatamente addossati alle mura avessero sempre convissuto con la mia quotidianità e, nonostante la mia vita mondana fosse praticamente inesistente, non avevo di che lamentarmi.

La scuola era incominciata, avevo conosciuto i miei nuovi colleghi e con alcuni di essi speravo di stabilire rapporti se non di amicizia, almeno di cordiale collaborazione. Magari avremmo potuto andare a mangiare una pizza insieme o a fare un giro a Firenze.

Dovevo ammettere che l’inserimento nel microcosmo della provincia toscana, per sua natura chiusa e diffidente, non sembrava alla fine un’impresa del tutto impossibile.

Le relazioni con i vicini erano improntate a un educato riserbo ma non mancavano gesti di spontanea cortesia. Come quando il ragionier Cavallotti si premurò di spiegarmi che il mio sgabuzzino degli attrezzi non era mai stato condonato e che, quindi, era abusivo: “Silvano Cappellini – che Dio l’abbia in gloria – non ha mai pensato a mettersi in regola. Per lui l’unica legge valida era la sua. Proprio come nel Far West. Era uno che pensava di essere il padrone del mondo e guai a dirgli qualcosa. Era buono a tirar fuori il fucile da caccia! Quello che voleva, lo prendeva sempre. Anche con le donne degli altri… Lo domandi alla Leda! Via, non mi faccia dire altro… Il povero Silvano è morto da anni e non sta affatto bene parlar male di chi non c’è più. E poi i nipoti non sono migliori di lui. Comunque, caro il mio professore, lei non si deve preoccupare perché, se gli paga l’affitto, a quelli non importa un bel niente di quello che fa in casa loro.”

Inutile spiegare al vecchio Silla che io non avevo nessuna intenzione di trasformare quel grazioso villino in una centrale terroristica o in un avviato casino. Ormai avevo capito che il mio vicino nutriva un’atavica diffidenza nei confronti di tutto il genere umano. Senza distinzione di sorta.

La vedova Pagnini, da parte sua, mi salutava sempre calorosamente, sia quando mi incrociava sulla porta di casa che quando mi scorgeva fra le fessure della siepe di lauro.

Le giornate scorrevano tranquille finché non incominciarono a verificarsi alcuni episodi, apparentemente insignificanti, che mi fecero avvertire nuovamente la stessa inquietudine che avevo provato durante la mia prima visita alla Leda.

 

III

Tutto incominciò la notte in cui fui bruscamente strappato alle mie avventure oniriche da una voce concitata al di là del muro della mia camera. La voce era una sola – quella della Leda – e sembrava che discutesse animatamente con qualcuno che, non osando contraddirla, osservava un assoluto silenzio.

A un certo punto distinsi chiaramente queste parole: “Non puoi continuare a mettermi in croce. Lo sai che la colpa non fu mia. È una vita che mi fai sentire colpevole. E io che dovrei dire di quella nera svergognata, eh? Sì, proprio lei, quella mezza ignuda che ti si strofina addosso nella fotografia! E non mi dire che quello non sei tu perché ti si riconosce benissimo anche con quella specie di turbante . Eh sì, avevi un bel cantare Io ti saluto vado in Abissinia cara Virginia, ma tornerò… Te la do io l’Abissinia, brutto traditore!”

Nonostante fossi ancora piuttosto assonnato, non mi ci volle molto a rendermi conto che la vedova era infuriata con il marito defunto. Allora aveva ragione Silla a dire che, quando la Leda non aveva sonno e si annoiava, evocava l’anima di Osvaldo e gli faceva delle gran scenate di gelosia! D’altra parte c’era anche da capirla, povera donna: non aveva avuto tempo per litigarci da vivo e ora lo maltrattava da morto.

Comunque per me non fu affatto piacevole essere svegliato nel colmo della notte da una simile sceneggiata surreale.

Ma le stranezze dei miei vicini non erano affatto finite perché la notte dopo accadde un fatto ancora più inquietante.

Era da poco passata la mezzanotte e stavolta ero io a soffrire d’insonnia. Avevo appena finito di leggere il mio Simenon e mi era venuta una gran voglia di fumare.

Se devo essere sincero, il sonno mi era passato a causa di certe ricorrenti fantasie ossessive. Fra queste spiccava per doloroso realismo l’immagine di Giammarco che si dilettava in rocamboleschi giochi erotici con i riccioli rossi di Antonella. La scena, seppure fosse solo il frutto della mia inconfessata gelosia, mi faceva stare proprio male.

Mi alzai dal letto, facendo attenzione a non svegliare Catullo, il quale – beato lui – dormiva placidamente sui miei pantaloni.

Visto che l’estate non sembrava decisa ad andarsene e che faceva ancora abbastanza caldo, spalancai la finestra e mi affacciai a contemplare il giardino avvolto nella quiete della notte. Un paio di finestre del Seminario erano ancora illuminate e l’orologio vegliava silenzioso sulle mura e sulle case. In alto, a sinistra dell’alicantus della Leda, spuntava una fetta di luna, proprio sopra la cupola della Madonna dell’Umiltà, mentre, sulla destra, la magnolia del ragioniere disegnava intricate trame sullo sfondo del cielo stellato.

L’idillio sarebbe stato suggestivo – e oserei dire quasi leopardiano – se, a un tratto, non avessi distinto un’ombra che scavalcava con straordinaria agilità la rete che separava il mio giardino da quello del ragioniere. Dall’alto mi fu facile riconoscere la sagoma che si dirigeva furtivamente verso la siepe di lauro della Leda: era – senza ombra di dubbio – quella del Cavallotti! Ma che diavolo ci faceva, a quell’ora della notte, il vecchio Silla, a zonzo come un ladro, per i giardini degli altri? Non feci in tempo a farmi altre domande perché un attimo dopo, il dinamico ragioniere si infiltrò, svelto come un serpente, in un varco della siepe, scomparendo alla mia vista. Potevo solo intuirne i movimenti ai piedi del lauro, dalla parte della Leda: sembrava proprio che fosse impegnato a cercare un oggetto nascosto sotto la siepe… Ma, se aveva perso qualcosa, perché non lo cercava alla luce del sole? Era fin troppo evidente che il mio vicino non voleva farsi vedere da nessuno. E men che meno dalla vedova. E se, invece, avesse voluto nascondere qualcosa?

Incominciavo davvero a incuriosirmi. Ma le mie domande erano destinate a rimanere senza risposta.

Infine, un raggio di luna illuminò di nuovo l’ombra di Silla che, uscito dalla siepe, si diresse in fretta e furia verso la rete. Con un balzo, sparì nel suo giardino.

“Che intensa vita notturna, alla faccia della monotonia di provincia!” sussurrai fra me e me mentre richiudevo la finestra.

Catullo, ancora adagiato sui miei pantaloni, aprì un occhio e mi fissò con sufficienza. Si stirò con le zampe anteriori e, infine, ripiombò nel sonno.

IV

Solo due giorni dopo, la tragedia irruppe, repentina, in viale De Sanctis. Con una violenza che non sarebbe dispiaciuta a Euripide.

Il vecchio Catullo, dopo aver messo a punto il suo piano strategico, decise finalmente di espugnare Costantinopoli. Lo fece a tradimento e con una ferocia inaudita.

L’ignaro Bobby saltellava sull’ulivo, assaporando una libertà solitamente negata ai suoi simili. L’inseparabile Solo, invece, beccava i semi nella piccola mangiatoia dentro la gabbia. Non si sa se per un’istintiva scelta di auto reclusione o se per un funesto presentimento.

Il fatto sta che il felino fedifrago spiccò un balzo degno del più audace acrobata del circo Orfei e, in men che non si dica, ghermì il povero pennuto, che passò immediatamente a miglior vita.

La scena fu così repentina che non feci in tempo a intervenire. D’altronde, che cosa poteva fare un povero insegnante precario contro l’istinto primordiale del cacciatore?

Era evidente che non mi restava altro che recitare la parte del padrone dispiaciuto e offrire alla vedova un congruo risarcimento.

Quando vidi la Leda sbucare dalla porta della cucina, mi sentii morire. Nel vedere il cadavere di Bobby sulla soglia, steso sullo zerbino, la vedova lanciò il suo disperato: “Gesummaria!”, dopodiché incominciò a lamentarsi come una prèfica.

In quel momento, nonostante la mia sensibilità e la mia raffinata formazione umanistica, non potei fare a meno di cogliere l’aspetto tragicomico di quel delitto rituale. Se Antonella mi avesse letto nel pensiero, mi avrebbe sicuramente sputato in un occhio. Ma era colpa mia se mi sembrava esilarante che Catullo, invece di piangere il passero di Lesbia, avesse mangiato il pappagallo della Leda? Sì, mi vergogno ad ammettere che l’idea mi faceva proprio ridere! E ancora di più mi sembrò grottesco il fatto che, morto Bobby, il suo inseparabile compagno Solo, dava finalmente un senso al suo nome.

A quel punto, rimandate a un altro momento le doverose condoglianze, rientrai in casa alla chetichella, agitando una scatola di croccantini al riso e rognone, con la speranza di distogliere l’assassino dalla scena del delitto.

 

V

La mattina dopo, il viale De Sanctis era in lutto. Ma solo gli intimi parteciparono alle esequie di Bobby. Dal momento che io avevo lezione, mi fu risparmiata la dolorosa cerimonia.

D’altra parte, con che animo avrei potuto consolare la Leda per l’irrimediabile perdita, se, mio malgrado, ero in qualche modo complice dell’assassino?

Al mio ritorno da scuola, Silla si premurò di raccontarmi la scena: “Lei doveva vedere la Leda mentre faceva la buca per terra sotto la siepe di lauro! Sembrava che seppellisse il marito…”

Mi morsi la lingua per non rispondergli. Avevo una gran voglia di chiedergli che cosa avesse seppellito lui sotto la siepe della Leda. Ma feci finta di niente.

“C’erano anche quella scema della Dorotea e suo fratello Alex. Per fortuna, il ragazzo non ha portato quella sua bestiaccia, altrimenti avremmo dovuto seppellire anche l’altro pappagallo. Io mi domando come si possa andare a giro con un cane da combattimento. Bisognerebbe sentire in questura se ci vuole un permesso particolare. A me quel ragazzo non mi sembra affatto normale. E poi frequenta certa gente!”

Dopo pranzo, mi feci coraggio e suonai il campanello della vedova.

La Leda mi accolse con cortesia, senza farmi sentire in colpa. Da parte mia, le assicurai che avrei iscritto il mio gatto a un corso di rieducazione e lo avrei punito privandolo delle scatolette al tonno, che erano la sua passione.

Rimasi nel suo salottino solo il tempo di trangugiare il solito orzo dei tempi di guerra. Stavolta mi toccò la tazzina con la mole Antonelliana ma il contenuto faceva schifo come durante la visita precedente.

A un tratto, mentre stavo per congedarmi, la Leda abbandonò la sua aria riservata e impenetrabile e si lasciò andare a una confidenza che assomigliava più ad una preghiera: “Professore, lei mi deve fare un piacere. Se il Cavallotti le dice qualcosa di me, lei deve raccontarmelo subito. Mi capisce, ne va della mia onorabilità! Quell’uomo è pericoloso, mi creda. So per certo che va in giro raccontando un mucchio di bugie su di me, su mio marito e sull’antico proprietario della sua abitazione, il povero Silvano Cappellini. Silla è sempre stato pettegolo e maligno e chi lo conosce sa che tipo è. D’altronde, i miei vicini sanno anche che, in tutti questi anni di vedovanza, il mio comportamento è stato impeccabile. Mai una diceria, mai un’ombra. Con Silvano eravamo in amicizia. Mi capirà, una donna sola ha spesso bisogno di qualche lavoretto: un rubinetto che perde, un albero da potare, una siepe da piantare…”

“Già,” mi venne detto “la sua siepe di lauro è uno spettacolo! Che cosa le dà per farla crescere così rigogliosa?”

“Oh, quella fu piantata dopo la morte… cioè… la scomparsa di Osvaldo. E la piantò proprio Silvano. Aveva il pollice verde quell’uomo!”

“Peccato che sia morto, altrimenti mi avrebbe sistemato il gelsomino. Mi sembra un po’ sofferente!”

“Provi a far fuori quel suo gattaccio e a metterlo nel vaso. Vedrà che il suo gelsomino si riprenderà subito.” Replicò lei con comprensibile cattiveria.

 

VI

La notte seguente mi aspettava un’altra sorpresa. Stavolta Antonella poté seguire in diretta tutta la scena. Una scena che definirei degna di una commedia di Feydeau!

Grazie alla web camera, era già una mezz’ora che contemplavo estatico la chioma della mia musa ispiratrice. Oltre, naturalmente, a tutto il resto .

“Senti, Antonella, mi faresti un favore personale?”

“Dimmi.” fece lei, giocando con uno dei suoi riccioli.

“Quando ti colleghi con Giammarco, dovresti legarti i capelli. Voglio dire che sarebbe meglio, così lui non si farebbe venire certe fantasie…”

“Ehi, Piero, ma sei impazzito?”

“No, no, facevo per dire.” cercai di schermirmi.

In quel momento si sentì un rumore infernale molto simile al suono dei piatti durante un concerto bandistico. Corsi alla finestra, la spalancai e compresi il motivo di un tale fragore.

Nel giardino della Leda, qualcuno aveva inciampato nel bidone di latta della spazzatura, il cui coperchio era andato a sbattere contro il bidone dell’acqua piovana, il quale, a sua volta, aveva dato il suo valido contributo al successo del concerto.

Ma chi era quell’ombra che si era infilata sotto la siepe di lauro e che scavava forsennatamente nella terra, guardandosi intorno come se temesse di essere scoperta?

“Ma che diavolo succede?” urlò Antonella.

“ C’è qualcuno nel giardino della Leda. Zitta, altrimenti scappa!”

“Ma chi deve scappare? Scusa, Piero, ma mi sembra che tu sia finito in una gabbia di matti. E forse nemmeno tu ci stai tanto con la testa, eh?”

“Accidenti, ma quello è Alex!”

“E chi sarebbe?”

“Uno dei miei vicini. Sai, quello con la murena tatuata sul collo e il teschio sul braccio… Quello che gira armato di pitbull. Te ne ho parlato, non ricordi?”

“Ah già, e che cosa ci fa nel giardino della vecchia?”

“Bisognerebbe chiederglielo. Ma dubito che risponderebbe in maniera civile. Non è un tipo socievole. Aspetta, ha preso qualcosa da terra… Vorrei sapere che cosa c’è di tanto prezioso sotto quel lauro da far alzare tutti nel mezzo della notte.”

“Forse partecipano a una caccia al tesoro.”

“Ecco, ora ha scavalcato la rete ed è rientrato nel suo giardino. Chi sa se la sorella è ancora seduta, come ogni sera, sul davanzale che dà sul viale?”

“Allora i tuoi vicini sono proprio matti! Attento a non diventare come loro. Già una certa tendenza ce l’hai… Bene, ora ti saluto. Devo chiamare Giammarco, altrimenti si insospettisce. Dovrebbe essere tornato a casa, dopo l’incontro di kung fu.”

Un sospiro doloroso mi salì dal petto: “Mi raccomando, Antonella, legati i capelli.”

Ma lei non mi aveva sentito perché aveva già chiuso la comunicazione.

Alzai lo sguardo verso il Seminario. Le due stelle, abituali frequentatrici di quello spicchio di cielo, si erano un po’ spostate. Una delle due mi parve che ammiccasse verso di me. Ma forse fu solo un’impressione.

Comunque mi venne un’idea. Uscii dalla camera, scesi di corsa le scale e mi precipitai alla porta dell’ingresso. L’aprii piano piano, per non farmi sentire e mi affacciai sul viale illuminato a giorno dai lampioni.

Non mi ero affatto sbagliato: feci appena in tempo a scorgere Alex, che saliva sulla sua Clio scassata e partiva a tutto gas, in direzione del centro. Alzai lo sguardo verso il primo piano del suo villino: comodamente seduta sul davanzale della finestra, Dorotea fumava e, contemporaneamente, fissava il cartello di divieto di sosta. In una mano teneva la sigaretta e nell’altra un telefonino che aveva appoggiato all’orecchio. Dalla sua bocca uscivano anelli di fumo concentrici che si perdevano nell’aria fresca della notte.

Richiusi la porta e ritornai a letto. Con il cervello tormentato da una miriade di sospetti e curiosità .

 

VII

Tutte quelle misteriose passeggiate notturne se, da una parte, incominciavano a rendermi nervoso, dall’altra, mi vivacizzavano la vita. E soprattutto mi distoglievano la mente dai pensieri funesti che mi tormentavano notte e giorno.

Inutile dire che anche a scuola la mia mente vagava spesso per i sentieri dell’ossessione. A volte capitava che, mentre i ragazzi copiavano di sana pianta una versione di Quintiliano o di Plutarco, io, completamente ignaro, mi lasciassi tranquillamente trasportare dall’immaginazione. Così le mie paure diventavano certezze.

Eccomi tutto intento a spiegare l’ablativo assoluto e, all’improvviso mi compariva davanti il ghigno di Giammarco in assetto di guerra. Oppure, mentre interrogavo la più brava della classe, mi sembrava di udire il grido del mio rivale e di vedere il suo Kimono di judo macchiato del mio sangue innocente.

Insomma, avrete capito che mi stavo esaurendo. E Antonella, con il suo atteggiamento ambiguo e indeciso, non mi aiutava certamente a guarire dalla mia ossessione.

Stavo controllando su Facebook i ringraziamenti che i miei alunni rivolgevano al sottoscritto perché li facevo copiare (oltre alle ingiurie alla professoressa di matematica che, invece, li sgamava alla grande), quando un breve messaggio di Antonella mi fulminò e mi mise in agitazione: “Piero, vai su Skype. Devo dirti una cosa importante. Anzi, vitale!”

Con la mano tremante, premetti forsennatamente il mouse sul telefonino verde. Ecco la scritta “in collegamento…”

“Ma quanto ci mette?” mi dicevo “Eccola, finalmente!”

“Piero, ti ricordi come si chiamava quell’estetista di Portici che faceva il filo a Giammarco?”

“Ma che vuoi che ne sappia” sbottai “ti sembrano domande da farmi alle undici di sera, dopo una giornata che aspetto di sentirti e di vederti. E poi, per favore, non mi rammentare quel King Kong da strapazzo…”

“Aspetta, ora ti spiego. Dunque, è meglio che mi rifaccia dall’inizio. Stavo cazzeggiando su Facebook, quando all’improvviso vedo una foto di Giammarco abbracciato a quella scema ossigenata, con le tette che sembrano i respingenti di una locomotiva. Te ne ho già parlato, non ti ricordi? Mannaggia, non mi viene in mente come si chiama…”

Un nome mi riaffiorò miracolosamente alla memoria: “Vuoi dire Filomena, detta Filo?”

“Bravissimo, giusto lei! Piero sei un genio. Ebbene, non ti sembra che la troia ossigenata ci risolva il problema?”

“In che senso?”

“Nel senso che, siccome ora ho la prova che Giammarco mi tradisce, gli faccio una bella scenata e lo pianto. E noi siamo liberi di stare finalmente insieme.”

Quelle parole erano miele per le mie orecchie e mi sarei goduto quel momento di trionfo se i miei dannati vicini non si fossero intromessi all’improvviso nella mia intimità.

Di nuovo, come qualche sera prima, il fragore dei bidoni di latta mi fece correre alla finestra. E ancora una volta un’ombra corse verso la siepe. Si trattava sicuramente di Alex perché veniva da sinistra. In quell’attimo un’altra ombra scavalcò la rete di destra ma qualcosa andò storto e il povero ragioniere – giacché di lui si trattava – cadde rovinosamente a terra.

Nel buio della notte si sentirono un grido soffocato e, subito dopo, un’imprecazione.

Il ragazzo, che nel frattempo aveva incominciato a scavare come una talpa sotto la siepe, si fermò all’improvviso e fece marcia indietro. Il ragioniere, da parte sua, ritornato sui suoi passi, scavalcò la rete, zoppicando e bestemmiando sottovoce.

Nel breve volgere di qualche minuto, il silenzio avvolse di nuovo le ortensie e le azalee, i limoni e l’olivo.

“Si può sapere che cosa succede?” strillò allarmata Antonella, agitando le mani dallo schermo del computer.

“Niente, niente. Le solite incursioni notturne del ragazzo tatuato e del ragioniere attaccabrighe. Vorrei solo sapere che cosa cercano o nascondono.”

“Un bell’enigma! Perché non provi a indagare? Anzi, secondo me, fai prima a domandarlo direttamente a loro.”

“Sarebbe un’idea! Ma ora lasciamo stare i vicini e pensiamo a noi. Allora finalmente è fatta! Chiama subito Giammarco e piantalo in diretta. Ti consiglio anche di fargli una bella scenata di gelosia. Così, tanto per farlo sentire in colpa.”

“D’accordo, passo e chiudo. Augurami buona fortuna!”

 

VIII

Com’era prevedibile, passai la notte in bianco.

Finalmente, verso le quattro, riuscii a appisolarmi. Giusto il tempo per essere assalito da incubi ancora più terrificanti del solito. Incubi nei quali la bestia di Secondigliano mi faceva fuori nei modi più bizzarri e cruenti. E nemmeno Antonella riusciva a sfuggire alla sua vendetta.

La mattina dopo non riuscivo a fare lezione, tanta era l’ansia che mi divorava.

Dopo cinque ore di tormento, finalmente suonò la campanella .

Mi precipitai fuori dal liceo con la stessa fretta di un ginnasiale ansioso di correre al suo primo appuntamento galante. Se devo essere sincero, avevo una gran paura che Antonella ci avesse ripensato. O che Giammarco, in preda a un attacco d’ira funesta, fosse già davanti a casa mia pronto ad assassinarmi con un colpo di karatè .

In effetti, davanti al mio villino, c’era qualcuno che mi aspettava: il camion dei vigili del fuoco con tanto di sirena accesa e un gruppetto di pensionati che parlottavano fra di loro.

Prima ancora che mi spiegassero l’accaduto, il Cavallotti uscì tutto allarmato dal suo portone, precipitandosi verso un pompiere che stava suonando il campanello della Leda: “Aspetti, non è niente. Glielo assicuro io. Si tratta di una piccola perdita. Basta chiamare uno stagnino e si aggiusta subito.”

In quell’istante uscì di casa anche Dorotea, seguita da Alex con pitbull ringhiante al seguito. La ragazza sgranò gli occhi e si accese una sigaretta, mentre il fratello sembrava un tantino nervoso.

“Si può sapere che cazzo succede?” domandò Alex, senza sforzarsi troppo di essere gentile.

“State lontani!” replicò un altro pompiere “Per favore, lasciateci lavorare.”

Poi, rivolto verso di me, mi invitò energicamente ad aprire la porta e a fargli strada verso il giardino posteriore.

Appena aperta la porta-finestra della cucina, compresi subito che qualcosa non andava: iI mio giardino era praticamente allagato e dalla siepe di lauro fuorusciva un getto di acqua giallastra dall’odore nauseabondo. Catullo, abbarbicato sul ramo più alto dell’olivo della Leda , guardava in basso con aria supplice. Forse alla ricerca di un’arca per mettersi in salvo.

I due pompieri si precipitarono verso la siepe e, infilatisi nel varco, entrarono nel giardino della mia vicina, dalla quale sgorgava con violenza quella specie di fontana.

“Il tubo dell’acqua è completamente squarciato” osservò il primo pompiere, cercando di tamponare la falla con uno straccio che aveva preso dal lavatoio della Leda.

Evidentemente il leggendario bambino che aveva salvato Harlem dalla furia della diga era stato più fortunato del pompiere, che fu preso in pieno dal getto d’acqua e dovette fare un passo indietro.

Il collega che si avvicinava per dargli man forte notò subito una sagoma per terra, proprio accanto alle fascine della legna. In un attimo, facendosi largo in mezzo a quel fiume impetuoso, corse a vedere di che cosa si trattava.

E fu così che fu trovata la Leda. Riversa con il viso per terra e il pappagallo superstite sulla spalla che tentava di svegliarla beccandole teneramente un orecchio.

Il primo pensiero, in mezzo a tutta quella confusione, fu che la mia vicina fosse svenuta dalla paura.

Invece, quando arrivò l’ambulanza, non ci fu nemmeno bisogno del medico per capire che era morta.

 

VIII

Quel pomeriggio fu tutto un via vai di gente che si avvicendava nel giardino della Leda. Prima l’arrivo della Misericordia che non poté fare altro che constatare la morte della vedova. Poi l’irruzione dei carabinieri che si misero anche loro a scavare sotto la siepe. Infine, la sera tardi, il colpo di scena.

Gli eventi erano stati talmente repentini che tutto il viale De Sanctis era rimasto sconvolto e incredulo.

Ma procediamo con ordine. Subito dopo il rinvenimento del cadavere e l’intervento di un idraulico specializzato che aveva aggiustato il tubo dell’acqua, avevo ritenuto che fosse meglio eclissarmi in attesa degli eventi.

Intendiamoci, ogni tanto davo una sbirciatina nel giardino accanto, attraverso la porta finestra della cucina. Così, tanto per tenere sotto controllo la situazione e per non farmi prendere in contropiede da un’eventuale visita delle forze dell’ordine. Visita che si verificò puntualmente quella sera stessa, alle dieci e un quarto.

Il maresciallo Bertagnin fu molto gentile e arrivò subito al punto: “Lei ha mai notato qualche strano movimento nel giardino della signora?”

Era evidente che non potevo sottrarmi al mio dovere di testimone. Così raccontai per filo e per segno le incursioni notturne dei miei vicini.

Il maresciallo annuiva, per niente stupito, come se gli confermassi dei sospetti che ora diventavano certezze.

A dire la verità, mi dispiaceva mettere nei guai Alex e Silla con la mia testimonianza. Ma non potevo sfuggire ai miei doveri civici e, soprattutto, era giusto aiutare chi cercava di far luce sulla morte della povera Leda.

“Lei pensa che la Pagnini sia stata uccisa?” mi permisi di domandare al maresciallo.

“No” replicò lui  “pare che la signora sia morta per un malore improvviso. Forse un infarto. Dobbiamo aspettare i risultati degli esami. Ma c’è qualcos’altro che bisogna chiarire… Comunque, la ringrazio per quanto mi ha detto. Lei è stato veramente utile alle indagini. Arrivederla professor Giachetti.”

Poco dopo, dalla finestra del salotto, potei seguire tutte le fasi dell’operazione che portò all’arresto prima di Alex e, subito a ruota, del ragioniere.

Il ragazzo uscì di casa scortato dai carabinieri, più stupito che preoccupato.

Mentre Dorotea teneva al guinzaglio il pitbull che ringhiava, sentii Alex mormorare: “Ma come, mi arrestate così per un po’ di mariagiovanna? Non era mica cocaina! E poi era solo per uso personale…”

Il Cavallotti, invece, reagì, in maniera del tutto diversa. Come si addiceva al focoso pronipote dell’eroico Felice: “Questa me la pagherete, sicuro che me la pagherete!” gridò al carabiniere che lo spingeva nell’auto.

La mattina dopo, mentre uscivo per andare a scuola, dal capannello di curiosi che si era formato davanti alla pasticceria, udii chiaramente la commessa dell’Oviesse che abitava al numero 12 che diceva: “Che vergogna, farsi beccare con la refurtiva sotterrata nel giardino della povera Leda! E dire che il ragioniere aveva sempre da fare la predica a tutti. È proprio vero, non si sa mai con chi si ha a che fare.”

“Allora è proprio vero che Silla faceva il ricettatore?” intervenne il rappresentante di commercio che abitava vicino al semaforo.

“Pare che comprasse i gioielli rubati e che li rivendesse a un paio di orefici piuttosto conosciuti in città.” spiegò con aria saccente il titolare della vicina pizzeria a taglio.

Ora incominciavo a capire il motivo di tutto il va e vieni nel giardino accanto al mio. Così sia Alex che Silla avevano approfittato dell’ingenuità della vedova per nascondere sotto la sua siepe il frutto dei loro loschi commerci!

Non potevo fare a meno di chiedermi se la morte della Leda era avvenuta per caso o era collegata allo spaccio di droga e alla ricettazione di gioielli.

Catullo, comodamente acciambellato sul forno a microonde, sembrava assai meno interessato ai misteri di viale De Sanctis. O forse cercava di non destare sospetti, nel timore di essere incriminato anche lui per il delitto del pappagallo.

I miei dubbi ricevettero una risposta quello stesso pomeriggio. E che risposta!

Il maresciallo Bertagnin entrò in casa mia con la disinvoltura di un ospite abituale. E ciò mi mise una certa inquietudine. “Vuoi vedere – pensai allarmato – che ora arresta anche me?”

Invece si sedette al tavolo della cucina e mi raccontò una storia che mi lasciò letteralmente senza fiato.

 

IX

Era ormai notte fonda quando apparve sullo schermo del mio portatile la figura evanescente di Antonella. Con addosso soltanto un baby doll di pizzo nero. Ma che fine avevano fatto i suoi riccioli color rame?

“Antonella, che cosa hai fatto ai capelli?”

“Non lo vedi? Me li sono tagliati. Così la farai finita con le tue assurde fantasie. Comunque, ora non hai più motivo di essere geloso.”

Il cuore mi batteva all’impazzata: “Vuoi dire che lo hai mandato a quel paese?”

“Magari mi avesse dato questa soddisfazione! Il fatto che mi fa incazzare ferocemente è che non me ne ha dato il tempo. Ha fatto tutto lui, quel fetentone. Non mi ha lasciato neanche parlare…”

“Vuoi dire che non vi siete lasciati?” chiesi allarmato, mentre un colpo di vento faceva spalancare la finestra socchiusa della camera da letto.

“Voglio dire che è stato lui a lasciarmi. Questa ti giuro che me la paga. Ah sì, che me la paga!”

“Ma che ti importa?” sospirai di sollievo “Basta che si sia tolto dai coglioni. Anzi, è meglio così, non ti pare?”

“Dici? E l’umiliazione di essere lasciata per una con le tette rifatte tu dove la metti?”

“Si vede che a Giammarco piacciono i falsi” cercai di consolarla “d’altra parte, siamo riusciti pienamente nel nostro intento, no? Ora finalmente ti puoi trasferirti in Toscana. Che ne diresti di realizzare il vecchio progetto del centro di fisioterapia in società con quella tua amica di Bologna?”

“Vuoi dire Serenella? Beh, tutto sommato sarebbe una buona idea. Ci farò un pensierino.”

“Sulla fisioterapia o su di me?”

“Che discorsi fai? Su di te, c’è poco da pensare. Ormai Giammarco non c’è più e io non posso mica starmene da sola. A maggio faccio trentadue anni e, se non mi sistemo, faccio la fine di mia sorella Tina che aveva tre fidanzati contemporaneamente e ora non la vuole più nessuno.”

“Ho capito” mi rassicurai “ti metti con me perché non hai altro di meglio. Sei una bella opportunista!”

Incominciava a far freddo. Andai a chiudere la finestra. Mi venne fatto di posare lo sguardo sulla siepe orami deserta della Leda. L’ortensia sfiorita emanava una tristezza infinita e anche l’olivo aveva qualcosa di funereo.

“Scusami Antonella, non volevo offenderti. Il fatto è che, nelle ultime ore, sono successi dei fatti incredibili.”

“Dio mio, come sei sensibile! Che c’è di strano nell’arresto di uno spacciatore e di uno che traffica in gioielli rubati? E anche la morte della vecchia, se ci pensi, è un fatto del tutto naturale. Capisco che ti sia dispiaciuto ma che ci vuoi fare, è la vita…”

“Tu non sai gli ultimi sviluppi. Oggi è tornato il maresciallo e mi ha raccontato una storia che sembra uscita da un romanzo. Anzi, da una tragedia greca.”

“Eccolo il mio Pierino che non può fare a meno di fare il professore! Che cosa c’entreranno mai le tragedie greche con la morte di un’anziana signora toscana?”

“Aspetta e capirai. Ascolta…”

“Sono tutta orecchi. Ma cerca di essere sintetico e di non fare troppe citazioni perché non le capisco.”

“Dunque, ormai è chiaro che la Leda è morta di morte naturale. Insomma, le è preso un colpo quando ha visto tutta quell’acqua che fuoriusciva dal tubo rotto.”

“Va bene che gli idraulici sono cari assatanati ma morire per questo mi sembra un’esagerazione.”

“Aspetta, la Leda è morta dallo spavento non perché era terrorizzato dal conto dell’idraulico ma perché temeva che, con il guasto, si scoprisse il suo terribile segreto.”

“Che segreto?” chiese Antonella visibilmente incuriosita “vuoi dire che la vedova aveva qualcosa da nascondere?”

“Eccome se ce l’aveva! Quando l’idraulico si è messo a scavare per aggiustare il tubo, ha trovato una bella sorpresa: ai piedi della siepe di lauro, sepolte sotto un pesante strato di terra, sono spuntate niente di meno che delle ossa .”

“Nooo?!” – fece Antonella, percorsa da un brivido di spavento.

“E indovina un po’ di chi erano?”

“Ho capito!” fece lei illuminandosi in viso “Erano le ossa del pappagallo che la vecchia aveva sepolto sotto il lauro.”

“Ma che dici? Erano niente meno che le ossa del povero Osvaldo, il marito disperso in guerra.”

“Scusa, non capisco. Se era disperso in guerra, chi l’aveva riportato a casa, morto e all’insaputa della moglie?”

“È qui che ti sbagli, cara la mia Antonella. La moglie sapeva eccome! Il maresciallo Bertagnin, che non ha niente da invidiare a Maigret, ha capito tutto fin dall’inizio e ha ricostruito tutta la tragedia greca.”

“E dai con la tragedia.”

“Eh sì, stavolta si tratta di una vera e propria tragedia greca. È successo tutto come aveva immaginato Eschilo: Agamennone torna dalla guerra e la moglie Clitennestra, d’accordo con l’amante Egisto, lo scanna senza dire bao.”

“Un momento, vuoi dire che la Leda assassinò il marito che era tornato dalla guerra. E chi sarebbe stato questo amante?”

“Ma Silvano Cappellini, naturalmente! Era lo zio dei miei padroni di casa. L’antico proprietario di questo villino” risposi non senza un brivido d’orrore al pensiero che in quella stessa camera aveva dormito per mezzo secolo un feroce assassino.

“Accidenti! Questa storia è meglio di Beautiful!” fece Antonella chiaramente impressionata.

La rievocazione del feroce delitto mi aveva come svuotato. Mi sembrava di vedere tutte le sequenze come in un vecchio film in bianco e nero. Osvaldo torna a casa dopo tanti stenti con la sua giacca militare logora e sdrucita. Già immagina le feste che gli farà la moglie nel vederlo comparire sulla soglia. Invece, sorprende la fedifraga “sul pezzo” in compagnia dell’amante. Allora lui, addolorato e offeso, sta per insultarla ma lei non gliene lascia il tempo e lo colpisce con il primo oggetto che le capita a tiro. Un candelabro, un quadro o forse l’innocente gondola veneziana che ora sta nell’ingresso? Intanto la pellicola scorre e il sangue anche. I due amanti, nemmeno sfiorati dal rimorso, non esitano un attimo a occultare il cadavere e, come in un thriller di Hitchkoch lo seppelliscono nel giardino sotto lo sguardo complice della luna. Il giorno dopo il Cappellini pianta nella terra spalata di fresco una lunga fila di piantine di lauro.

“Ehi, Pierino, ti sei addormentato?”

“No, no, stavo pensando che, forse, domani andrò a cercare un’altra casa. Magari prenderò in affitto un appartamentino in periferia. Mi dispiace per Catullo ma questo posto mi mette davvero angoscia.”

In quello stesso istante un misterioso oggetto si posò improvvisamente sul davanzale della finestra. E fu così che apparve Solo, incoronato dalle due solite stelle che brillavano stavolta a destra dell’orologio del seminario. Aprii la finestra per farlo entrare. Il pappagallino non se lo fece dire due volte e, con un breve volo, andò a posarsi sull’antico cassettone liberty del Cappellini. Catullo aprì un occhio, lo fissò con aria mesta, dopodiché si riappisolò alla ricerca di un’impossibile espiazione.

Laura Vignali

(Tratto dal libro I calzari dell’Abate Gioacchino e altri racconti)

Commenti

2 commenti a “Siepi alte e buon vicinato”


  1. Enrico Nesti ha detto:

    Brava Laura, i miei complimenti ti meriti tutto il successo che stai avendo
    Spero ti giunga gradito ciò che leggerai su di te :

    Con spirito acuto, con un pizzico di ironia, una penna ben rodata, la nostra Laura, sa cogliere al volo la preziosità nascente nelle minuzie della vita quotidiana, sottraendole all’ ordinario per trasformarle in piccole schegge di pensieri su cui sorridere e sorprendersi.
    Da brillante acrobata della parola, Madame Laura, ricorre una originalità mai scevra di eleganza per invitarci a leggerla. Non per condividere con noi i grandi eventi popolati di protagonisti dai nomi altisonanti, bensì per farci partecipi dello stupore insito in alcuni fatti umani, di gente comune, regalandoci un po’ di seducente leggerezza o dell’ impagabile magia che a volte offre l’esistenza, anche se osservate a tavolino di un caffè davanti a un cappuccino e una friabile brioche. Enrico.

  2. Maria Bucciero ha detto:

    Giallo divertente, ironico, leggero come è nello stile di Laura Vignali

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