Recensione di Alfredo Barberis a “Campane di silenzio e vento”

La solida, solidissima prima pietra su cui si erge tutta l’opera poetica di Maurizio Valentini, ora con “Campane di silenzio e vento”, arrivata al decennio 2006-2016, è la sterminata cultura dell’Autore, non una cultura, come dire?, “accademica” che pure Valentini possiede, e che spazia da Lucrezio a Vico, da Adorno a Benjamin, ma una cultura “altra” che scava in territori poco frequentati dall’intellighenzia nostrana, una cultura esoterica, affidata, in Italia, a case editrici di nicchia o alle scoperte del catalogo adelphiano, scelto dal nume Calasso, indomito dissodatore di tanti terreni affascinanti e misteriosi. Ciò non vuol dire che la poesia di Valentini sia una poesia per “happy few”, la può leggere e apprezzare come merita, chiunque sia catturato dal senso del paesaggio, dai colori e dai suoni molto “romani”. È una poesia spesso notturna, percorsa, anche, a volte, da ossessioni erotiche, di sogni, di incubi. Come il “Tutto suo Hölderlin”, cui Valentini dedica una manciata di versi attraversati da una “casta follia”, l’Autore, chiuso nella sua torre-appartamento di Vicolo delle Grotte, in una Roma ascoltata ora per ora, giorno dopo giorno, inanella ricordi e nostalgie. Ed è bene sottolineare che il suo ultimo, per ora, libro, pubblicato in una collana che affianca Rimbaud e Baudelaire è affettuosamente, dolorosamente dedicato “ai miei genitori e a Simonetta che non sono più”

Alfredo Barberis

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