L’orecchio assoluto

Lo sapevamo tutti: avrebbe potuto fare il conservatorio.
Suonare in una orchestra.
Esibirsi come solista, anche.
Ma niente.
Pietro era un raccoglitore di suoni e di romanze dimenticate.
Girava con il suo registratore come un rabdomante alla ricerca dell’acqua.
Quando arrivava da noi alla radio, era una festa.
Il nastro partiva, e la voce, modulata sul canto, veniva ascoltata con la stessa attenzione per la partita alla radiolina della domenica.
Quando la riproduzione finiva, si rimaneva in silenzio per un istante e volgendo lo sguardo verso Pietro, gli ricambiavamo l’emozione esaltando la riuscita del suo lavoro.
Lui sorrideva, sornione, spalancando gli occhioni grandi dentro il faccione cresciuto rimanendo bimbo.
Un istante dopo ci metteva subito al corrente della prossima avventura.
– Quando parti?
– La prossima settimana.
Per lui era una ricerca di purezza: ritrovare qualunque suono che non fosse contaminato da altro, che conservasse ancora un filo di trasparente originarietà.
Aveva iniziato in periferia, tra le grandi famiglie di emigrati del novecento, per andare sempre più fuori, sempre più lontano, tra paesi e borghi ormai disabitati, dove trovava ospitalità, storie e tavole, tante tavole con pietanze che adorava e che con golosità apprezzava fino a star male perché non aveva intenzione di offendere nessuno.
Qualche volta lo seguivo, ma era difficile stargli dietro, nonostante la sua mole, il peso di un corpo che pur essendo fuori misura, si muoveva con un’agilità inaspettata.
Ho sempre ammirato le movenze delle persone di taglia forte.
Sembrano andare sostenute da molle nascoste, con la cintura dei pantaloni allacciata ben sotto la pancia abside.
Pietro aveva anche un bel sorriso: il più bello tra tutti noi amici, incorniciato tra le guance coperte da una ordinata barba rossiccia che finiva in mezzo ai suoi capelli corti a boccoli.
Facevi in tempo a vederlo e un attimo dopo era via.
Per lui non c’erano soste, pause: solo lavoro, lavoro e ricerca.
Girava e rigirava tra le piane e le colline, oppure si inerpicava con la sua Moto Morini Corsarino sugli alpeggi armato di microfono e nastri.
E se ne veniva all’osteria solo quando aveva fatto il pieno, altrimenti era a casa per valutare il senso di tutto quel suo andirivieni.
Io, insieme agli altri, ascoltavo le sue storie, spesso cariche di disavventure e di cani irrispettosi dei suoi calcagni.
Si rideva e si ammirava al tempo stesso.
Nella radio libera che avevamo aperto nella soffitta della casa di Alberto e Luisa, aspettavamo sempre che lui ci portasse qualcosa: una chicca, una vecchia rima da mandare a memoria durante i programmi notturni o domenicali.
Lo vedevo arrivare con quel suo eskimo sdrucito, frutto di appostamenti e scavalcamenti che sapevano di formaggi, pecore e fango, per presentare la sua ennesima scoperta.
E quando accadeva, da quel suo registratore, cappello a cilindro, venivano fuori cose imprevedibili.
Voci di vecchie e di pastori, di nonne e nenie, voci di vicende da raccontare, come cantastorie, intorno ai fogli illustrati. E lui, con quegli occhi pieni di gratitudine, che spiegava e raccontava come e dove era riuscito a scovarle, felice e soddisfatto alla stessa stregua di un ragazzino davanti al suo primo pallone.
– Dovresti averci fatto l’abitudine, ormai.
– No, non è possibile, non per me, almeno.
Pietro era sempre stato un filosofo dell’artigianato: un amanuense per definizione, soprattutto per la sua strumentazione che riusciva a trasformare, cambiare, per rispettare sempre più e sempre meglio il suono che trovava nelle voci.
Nel tempo aveva coltivato con amore tutte le cose fatte in casa a cominciare dai cibi: il vino sfuso, di cui faceva un uso massiccio, il formaggio che lui chiamava cacio, le carni insaccate, le verdure sott’olio, quelle crude che accettava dai contadini che incontrava, il pane odoroso di forno a legna.
Diceva che sarebbe stato bello fare una mappa di tutti quei posti che si trasformano in luoghi perché percorsi da un’anima: una sapienza capace di fare credenza, di unire, di offrire, di nutrire corpo e spirito.
Sapeva nome e cognome di chi l’abitava, imparava i soprannomi, e sorrideva di quanto gli stessero a pennello: da Battilardo fino a Fuscello per non citare Gramigna che era tutto un programma, e un certo Senti mo’ che vantava di sapere tutte le ninne nanne delle mamme dell’intera penisola.
Molte delle sue raccolte, però, riguardavano canzoni e testi della resistenza, dei tempi della guerra, altri avevano rimembranze anarchiche e libertarie.
Le adoravamo, e imparavamo a cantarle facendo bella figura davanti ai vecchi compagni partigiani che tornavano a commuoversi nell’ascoltarle.
Inutile ricordare quando una sera fu aggredito.
– Dai: ce la racconti?
– E no, basta, ogni volta questa storia.
– Prendi un pasticcino, forza, che ti viene meglio.
Sbronzo, era finito a farsi un altro bicchiere sbagliando osteria.
Nella discussione con alcuni frequentatori di quei tavoli già neri di loro, tirò fuori la sua roba e la alzò a tutto volume intonandone dietro alcune strofe.
Fu un attimo.
Afferrato da alcuni presenti venne portato fuori e sbattuto tra calci e pugni.
Quando si risvegliò, più tardi, era a casa nostra, ricucito alla meno peggio, aveva ritrovato tutta la sua roba sfasciata e i nastri srotolati e ingarbugliati come fili di lana intrecciata.
Rimase sbigottito.
A dire il vero ci rimase per un bel po’.
Mi diceva che nonostante tutto era incredulo di tanta ferocia.
Di quanto fosse esterrefatto della capacità dell’animo umano di convivere con il tocco della grazia e quello della maledizione.
– Nessun uomo è cattivo.
Mi disse una mattina davanti al caffè.
Gli risposi che forse era troppo ottimista in questa sua considerazione.
Mi guardò, sorrise con le sue guance pettinate, ed uscì salutandomi come se dovesse essere l’ultima volta.
Nei giorni seguenti rimase chiuso in casa, e quando lo chiamavo rispondeva che era occupato ma che si sarebbe fatto vivo, di non preoccuparsi.
Qualcuno lo vide risalire con la sua moto verso le colline; altri ce lo segnalarono in cima a qualche vetta, a sparigliare il suono degli uccelli col rombo inconfondibile del suo veicolo.
Una sera, con una luna da fare giorno, cercandolo, lo incontrai verso il fiume su un pontile nascosto dalla vegetazione utilizzato per fare bagni senza costume.
Seduto e silenzioso, ascoltava il racconto che gli portava l’acqua, mi disse.
– Lo senti? Sul serio senti cosa dice?
L’apostrofai sottovoce.
Lui aprì un momento gli occhi e con lo sguardo furbo e veloce che gli riconoscevo mi rispose che non era difficile e neanche strano.
Bisognava imparare: imparare a sentire davvero, imparare di nuovo.
E rimanemmo lì, nel tempo che restava, senza fare un fiato.
Pochi giorni dopo venne alla radio a salutarci mettendoci a conoscenza di un grande progetto: una circumnavigazione del globo per dimostrare che quelle canzoni e la loro storia erano comuni in tutto il mondo e che intonassero tutte una sola parola: libertà.
Le nostre raccomandazioni riscossero lo stesso effetto di un non fare tardi detto da una madre apprensiva, e di lì a poco, partì.
Cercammo attraverso i parenti di sapere qualcosa, ma niente, solo qualche lettera dal Sudamerica o dal continente africano.
Lettere piene d’incanto e di fascino che sapevano di palme, di bambù e di baobab.
Aveva continuato a scrivere regolarmente e con la stessa regolarità spediva copie di nastri che all’ascolto emettevano versi e sonorità inconcepibili anche ad un orecchio smaliziato.
In seguito credemmo che si fosse smarrito del tutto.
Meno lettere e meno pacchetti.
Ognuno di noi s’era fatta un’idea diversa, ma nessuno poteva giurare che la propria fosse più verosimile dell’altra.
Io qualche volta scesi anche giù al fiume per tentare di carpire almeno la sua di voce, ma niente.
Mi mancava: mi mancavano i suoi argomenti, mi mancava la sua visione del mondo e delle persone, la sua passione autentica per un bene comune da poter stringere tra le mani.
Passarono mesi, e di Pietro più niente, solo episodi da rievocare intorno all’ottavino rosso dell’osteria.
– Stai ancora appresso a lui?
Mi interrogò Lucia in una pausa di lavoro.
– Perché no? So di amarlo e questo mi basta.
Gli appunti sulla sua storia erano diventati sempre più voluminosi ed importanti per me, pensavo che ne sarebbe potuta uscire una bella trasmissione alla radio, che la sua vicenda avrebbe potuto contagiare più di un ascoltatore.
Era tardi, la sera che squillò il telefono, quando Abele, uno dei nostri, ci disse che Pietro sarebbe andato in Tv.
Una rete della TV nazionale per giunta.
Ingrassato e colorato dai soliti rossi sulle gote, se ne stava seduto a raccontare la sua impresa, fatta di un catalogo impressionante di suoni e melodie, da far invidia ad una teca universale della musica popolare.
Ci bevemmo su e cercammo di ricontattarlo.
Ed io, più di tutti, ne sentivo il bisogno.
Quell’apparizione mi aveva folgorato, mi aveva restituito un ricordo che non era solo nella memoria. Cercavo e andavo, chiedevo, telefonavo, ma se per caso arrivavo quasi a raggiungerlo, lui era già ripartito in compagnia della sua strumentazione, solo più aggiornata.
Alla fine, come gli altri, me ne feci una ragione, e rimasi a pensarlo girare il mondo per fare da cassa armonica ad una umanità che nelle canzoni ci ricordava di esistere.
Tornai a mescolarmi con gli altri.
Avevo pensato di cambiare pettinatura e abiti.
Ma senza nessun risultato: non riuscivo che essere me stessa.
La solita Maria da jeans e maglietta sotto il grande giaccone di lana grezza.
Fino a quando, una mattina che non era ancora giorno, sentii bussare alla porta, mi misi qualcosa addosso e andai ad aprire.
Era lui.
Si presentò con il solito faccione dal sorriso bacioso.
– Allora, che fai: non mi abbracci?
In un attimo gli saltai letteralmente sul collo e mi spalmai sul suo petto.
Non avevo mai sentito un calore così forte salirmi da sopra le ginocchia, attraversarmi la pancia e finirmi nella testa che iniziò a girarmi.
Lui mi posò a terra ed entrando in casa mi spiegò che sarebbe dovuto ripartire e che non avrebbe mai voluto farlo senza prima salutarmi per bene, non stavolta.
Gli offrii un caffè e lo feci sedere sul letto ancora caldo della notte.
Per tutto il tempo, mi fissò, con uno sguardo fermo, preciso, ininterrotto, poi si avvicinò e mettendosi di fianco mi prese la caffettiera dalle mani, l’appoggiò sul marmo e disse:
– Perché non vieni con me?
– Io? Che dici: ti sarei solo d’impiccio.
– Ti sbagli, saresti utilissima, invece, e poi…
– E poi?
Lui non rispose, si avvicinò al mio viso, m’afferrò con le sue mani generose e mi stampò un bacio sulla bocca che neanche il più tenero degli amanti.
Non ero più stata baciata da tanto tempo.
Non in quel modo.
Capii il senso di questo digiuno e Pietro lo sapeva, e forse l’aveva sempre saputo.
Mi confidò che nonostante il tempo trascorso, si era accorto delle mie premure, delle mie domande ma anche dei miei silenzi, e che questi fossero stati ancor più irresistibili.
Disarmata e felice, condivisi la sua attenzione con un altro abbraccio.
– Certo: per impicciarmi, m’impiccerai di sicuro, però…
– Però?
– Però niente: che vuoi sapere?
– Quando partiamo?
La borsa comparve sulle mie mani in un momento.
Poche cose, nessun ingombro.
Era tutto previsto, avevo immaginato questo momento mille volte, forse meno, ma era il momento che aspettavo.
E poi, chiusa la porta dopo una notte insonne, lasciate le chiavi ai vicini di merende e chiacchiere cortesi, saltai sulla moto e i capelli, prima del casco, fecero il resto.
Ora quelle voci tante volte ascoltate, avrebbero avuto un corpo, un volto, un suono da toccare con mano insieme alla felicità.
E all’inizio fu un paradiso: gente cordiale, risolta, realmente a posto nella loro terra; cose buone da mangiare ad aprire nuovi gusti con le primizie più sane; cose belle realizzate a mano con tessuti grezzi, materiali riciclati, legno e pietre.
Famiglie giovanissime con bambini dai culetti a mordere.
Erano famiglie che uscite dalla città, da un lavoro difficile e spesso avaro, da una mobilità di macchine e mezzi di trasporto zeppi e unti, s’erano disposte altrove, per piegarsi sulla loro laboriosità per dargli frutto.
E con loro, serate interminabili tra canzoni e vino, seguite da mattine d’alba a sgroppare sui crinali dietro ai cantori.
Poi qualcosa mutò.
Sapevo che ci sarebbero stati degli intoppi, ma non così tanti.
Non fu facile.
Anzi.
L’organizzazione delle cose aveva falle impreviste, all’inizio sorprendenti e piacevoli, in seguito un po’ meno.
Registrazioni preparate e non realizzate, appuntamenti mancati, ore di sonno perse e la corsa continua per i collegamenti con la nostra radio e con le altre.
Materiale spedito disperso tra borse e binari.
Solo i pasti sembravano riordinare il piano, mettere a punto una strategia che però finiva per non funzionare. Pietro mi rincuorava, mi diceva di non preoccuparmi, di fare attenzione e di osservare meglio. Altre volte era muto e io sbandavo.
Tutto sembrava vulnerabile.
Troppo.
A volte lasciavo che facesse da solo.
A volte spingevo per andare oltre le nostre possibilità senza capire bene.
A volte niente.
– Devo fermarmi un momento.
Riuscii a dirgli una mattina alla stazione di un piccolo paese di pianura.
Lui capì: aveva lo sguardo tenero, comprensivo, davvero amabile seppur scosso dalla tristezza.
Tornai a casa.
Riafferrai i miei tempi e recuperai il ritmo di un respiro calmo anche se a tratti sembrava diverso, sospeso quasi.
Mi sorprendevo ad alzarmi presto, a spostarmi con un passo sconosciuto, a guardare fuori dalla finestra con la tazza di tè fumante senza fissare qualcosa di preciso.
I giorni passavano, le ore pure.
Il solito fiato, lo stesso entra ed esci dallo studio, tra marciapiedi e rumori ora insopportabili, ora irrinunciabili, quasi imprescindibili.
Lo avevo perso.
So che non avrebbe telefonato, non era da lui, non lo era mai stato.
Alla radio nessuno mi chiedeva nulla, ma sapevo che avevano le domande, e quelle risposte non avevo voglia di darle.
Non era ancora sera quando, diversi mesi dopo, entrando nel viale che portava a casa lo trovai appoggiato alla porta.
– Che ci fai qui?
– Devo portarti in un posto.
– Sì, ma quando sei arrivato?
– Sono arrivato.
Aveva l’automobile, stavolta.
Guidò senza dire una parola, con lo sguardo sereno, per nulla appeso.
Condivisi il suo silenzio avvertendo una grande pace.
Imboccammo una strada di periferia prima, e poi una fuori città in direzione delle colline pettinate dai filari e macchiate dai fiori.
Qui entrò in un cancello dove si poteva intravedere una fattoria.
In fondo, tra le altre, più in disparte, una casa dal colore rosso colonico.
Infilò le chiavi e aprì.
Dentro c’erano mobili recuperati, sedie impagliate e un tavolo di legno e marmo; di lato una cucina piena di oggetti di campagna restaurati e un grande letto di ferro battuto, proprio accanto ad un camino che odorava di cenere.
– Ma è tua?
– È nostra…
Rispose col respiro ancora in gola.
Restai senza parole in compagnia di una lacrima che non aveva voglia di arrestarsi.
Riprendemmo a vivere insieme.
Andavamo e tornavamo con ritmi più precisi.
Il lavoro aveva preso una piega diversa, una giusta misura.
Lui si spostava e io redigevo i testi, tenevo in ordine il lavoro, gli davo una struttura, un tempo, fissando appuntamenti e anticipavo le sue mosse incontrando i personaggi da lui cercati.
A casa, poi, sul divano di pallet e paglia, discutevamo il da farsi con la stessa armonia sonora di una partitura a due voci.
Oggi, a distanza di anni, tra un acciacco e l’altro, la musica ci risuona continuamente intorno, come il ritornello ripetitivo sopra i cavallucci di una giostra ai giardini.
Non siamo ancora scesi.
Non scenderemo mai.

Stefano Lucarelli

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La trama dei gesti

Commenti

6 commenti a “L’orecchio assoluto”


  1. Fabio ha detto:

    Semplice e lineare. Molto partigiano e un po datato ma, considerati i tempi … coraggioso!
    Salute/i
    Fabio

  2. Roberta ha detto:

    Come sempre, anche stavolta i racconti di Stefano Lucarelli avvincono e non ti lasciano andare. Ho letto tutto d’un fiato, con la curiosità di sapere come sarebbe andata a finire la vicenda di quest’uomo semplice ma autentico.
    Grazie per avercelo raccontato

  3. Roberta ha detto:

    Come sempre mi accade quando leggo un racconto di Stefano Lucarelli, anche stavolta questo mi avvince e non mi lascia andare. Ho letto tutto d’un fiato, con la curiosità di sapere come sarebbe andata a finire la vicenda di Pietro, “raccoglitore di suoni e canti dei tempi andati”, uomo mite, semplice ed autentico, solitario custode di tesori antichi. E nel finale, mentre comprendo il senso di quella sua ricerca che a tratti potrebbe sembrare vana, ritrovo anche l’umanità dell’autore.
    Grazie, Stefano Lucarelli, per averci parlato di Pietro

  4. Alessandra Passanti ha detto:

    Interessante ritratto di umanità ormai rarefatta. Complimenti all’autore: sono foto che documentano un’epoca sempre piu’ lontana nel tempo.

  5. Fabio ha detto:

    Beh … decisamente più ricco, emozionante con connotazione magica e fiabesca che, a mio avviso, soppianta la caratteristica civile e “impegnata” comunque presente.

  6. Viscardo ha detto:

    Una meraviglia di scrittura e di immagini, forti interiori incancellabili. Pietro è nello stesso tempo fantasma e allegoria, desiderio e rimpianto. Di chi vuole catturare i suoni e la voglia di ascoltarli insieme, a patto di andare girovagare inseguire tornare. La storia di un amore fatto di viaggi. Ricorda Sebald e la sua scrittura curiosa e semovente. Un vecchio ma senza il mare di Hemingway. Lucarelli è ormai maturo per un romanzo. A quando?

Rispondi a Roberta