“La religione della mente” – Recensione di Roberto Celada Ballanti sulla rivista Humanitas

Da Humanitas fascicolo 1/2012, Friedrich Hölderlin pensiero e poesia, Morcelliana Brescia.

Quale sia il rilievo di Herbert di Cherbury nella storia del pensiero filosofico-religioso moderno, o all’interno della moderna filosofia della religione, viene chiarito sin dalle righe introduttive di questa monografia, destinata a offrire un denso apporto e l’indicazione di nuove vie di ricerca alla non certo copiosa letteratura critica italiana sull’autore: «Herbert di Cherbury – scrive l’autrice – fu tra i primi a offrire nel 1600 una risposta laica ai perenni quesiti dell’uomo sulla verità, sull’assoluto, su Dio. Lo fece in un momento di grande crisi, su tutti i versanti, dell’eurocentrismo cristiano, opponendo al dogmatismo delle chiese e al relativismo degli scettici l’alternativa di un uomo integrale da costruirsi cercando il divino nella propria interiorità e innalzando a supremo giudice delle azioni umane il tribunale, come lo chiama egli stesso, della coscienza» (p. 5).

La topografia speculativa fissata in tale pagina non lascia dubbi sulla localizzazione della filosofia religiosa dell’autore del De Veritate, del De Religione Laici, del De Religione Gentilium in un difficile quanto audace metaxù collocato tra le ortodossie e la critica radicale alla religione, tra lo scandalo delle divisioni fratricide tra Chiese, delle Guerre di religione, e lo scetticismo libertino e ateo: un’autentica terza via nel dominio religioso che fa di Herbert, come già W. Dilthey aveva colto, esponente di quella linea speculativo-teologica «trascendentale o spiritualista» che, dal Cinquecento in poi, muovendo dal teismo rinascimentale e dalla mistica, ha dichiarato l’universalità della rivelazione e il primato della coscienza e del lumen Dei in essa inscritto sul dogma e sulle istituzioni. Herbert, in questo senso, scrive Dilthey, è colui che «primo tra tutti nell’Europa cristiana pose le basi dell’autonomia della coscienza religiosa mediante l’analisi della capacità conoscitiva in materia di religione» (L’analisi dell’uomo e l’intuizione della natu­ra. Dal Rinascimento al secolo XVIII, tr. it. di G. Sanna, La Nuova Italia, Firenze 1974, vol. II, pp. 3-4).

In realtà, come nota il grande pensatore tedesco, la filosofia religiosa di Herbert non è scindibile dalla teoria della conoscenza, quale è definita nel De Veritate. Al duplice versante indicato, tra lo scetticismo e le divisioni ecclesiali, Herbert risponde fissando la sua “atopia” in due tesi essenziali: 1) esiste la verità; 2) esiste un nucleo identico in tutte le religioni storiche, costituito dalle cinque «nozioni comuni». Imperniata sul carattere di immediatezza intuitiva di tali «nozioni», simile filosofia, per quanto tributaria di stoicismo e platonismo, viene da Gabriella Bartalucci inscritta, con mossa ermeneutica originale, nel solco più ampio e polifonico della tradizione ermetica rinascimentale, di cui Herbert nel Seicento assume il legato. Di qui egli trae l’idea di una religione naturale che poggia «su un’esperienza interiore nella quale si realizza la ricerca di verità e di bene che Dio ha connaturato nell’uomo» (p. 44): religione naturale che appare come una variazione e una trasformazione dell’una religio di Cusano, con analogo intento irenico, universalistico, ecumenico, ma ormai tale da aver congedato quel monoteismo trinitario e cristologico che nel De pace fidei sostanziava l’unica religione nella varietà dei riti. In luogo di un cristianesimo razionale e universale, così comprensivo da unire tutte le fedi, ora, in Herbert, si pone il cantus firmus delle cinque nozioni comuni, ma la tradizione è la stessa, pur radicalizzata, a un secolo e mezzo circa di distanza, dei Cusano, dei Ficino e dei Pico: «Su queste basi – conferma la Bartalucci – torna il tema di una concordia tra le varie religioni, di una realtà unica aldilà delle forme particolari che assume; una sola è la religione nella varietà dei riti, avevano detto Cusano e Ficino, ed Herbert ritiene come loro, aldilà dei nomi, di dover cogliere l’essenza comune, allo stesso modo nel quale, al di là dell’apparenza, nella natura c’è un’unica vita divina» (ibid.).

Per quale ragione l’operazione ermeneutica della Bartalucci che inscrive Herbert nel solco dell’ermetismo rinascimentale appare di significativo rilievo ermeneutico? Perché l’ermetismo rinato all’interno dell’Accademia fiorentina segna, a nostro avviso (come si era osservato nella nostra ricerca sul Pensiero religioso liberale edita da Morcelliana e come ritroviamo autorevolmente confermato in questa ricerca), la vera aurorale svolta verso la modernità religiosa: «L’ermetismo, nella forma che aveva assunto nell’ambito del platonismo fiorentino rinascimentale, era divenuto la dottrina di tutti coloro che aspiravano a una religione non cristallizzata, non dogmatica. Attraverso il tema della prisca theologia, che avvicinava le dottrine dell’egiziano Ermete, quelle di Orfeo, di Zoroastro, di Pitagora, di Platone a Mosè, era nata l’idea di una consonanza di tutte le fedi e di tutte le religioni convergenti in un’unica verità, che eliminava ogni distinzione e si fondava, nel suo appello all’interiorità, su di un senso nuovo della dignità e dell’essenza dell’uomo» (p. 15).

La torsione nel dominio religioso è davvero grande perché qui, rispetto al traditum teologico medievale, è rinvenibile un inedito allargamento dell’idea di rivelazione che scardina l’intera dogmatica teologica ritenuta intangibile e le sue cronologie. Inoltre, il baricentro della religione si sposta dalla Rivelazione storica alla coscienza del singolo come locus revelationis, non necessitante, per il carattere di apprensione diretta delle nozioni comuni, di alcuna mediazione dogmatica, rituale e istituzionale. Una torsione in senso soggettivistico-trascendentale che, col sociologo Peter L. Berger, si potrebbe certo porre sotto il segno dell’«imperativo eretico» e del pluralismo religioso.

Assolutamente innovativa si pone tale prospettiva, tanto più nella versione offerta da Herbert, che eliminava ogni primato della fede ebraico-cristiana. In tal modo, ben si comprende l’operazione ermeneutica di Mersenne tesa ad “addomesticare”, se non in senso apologetico cattolico quantomeno in senso latamente cristiano, utilizzandola forse a fini conciliativi interconfessionali, la dottrina herbertiana delle cinque nozioni comuni. In realtà, queste ultime fondano una religione «rotonda», autosufficiente, irriducibile a qualsivoglia forma di ancillarità, mentre, con la suddetta operazione, esse «divengono dei preamboli che preludono all’unica vera rivelazione, quella cristiana» (p. 70).

Altamente problematica per Chiese e ortodossie è destinata ad apparire la terza via herbertiana nel dominio del religioso, traente ispirazione dall’ermetismo rinascimentale, se è vero che anche Jan Assmann vede proprio nella prisca theologia la prima forma moderna della revoca della «distinzione mosaica». La grande «battaglia dei ricordi» che si combatte all’inizio dell’età moderna, osserva Assmann, avviene all’interno del monoteismo, nel rapporto col passato religioso: «Bisogna escludere questo passato ante legem come paganesimo e considerare quindi la professione di monoteismo sul monte Sinai come una conversione? Oppure bisogna includere questo passato nella storia della verità e considerare Mosè come uno fra i tanti che, nel mondo antico, furono latori di verità e di rivelazione, incluse figure risalenti a un passato ancora più lontano, come ad esempio Zoroastro ed Ermete Trismegisto? La seconda opzione equivarrebbe alla revoca della distinzione mosaica» (J. Assmann, La distinzione mosaica ovvero il prezzo del monoteismo, Adelphi, Milano 2011, p. 102).

Herbert, in questa prospettiva, appare un momento decisivo della revoca moderna della «distinzione mosaica», dell’intolleranza immessa dal monoteismo esclusivo. Lo conferma in pieno la Bartalucci quando scrive che la ricerca di un fondo comune e di un terreno originario tra le religioni «eliminava l’isolamento di una quasiasi tradizione, ma soprattutto il carattere privilegiato di quella ebraico-cristiana, che su questi presupposti aveva soppiantato il paganesimo» (p. 191). Lo strumento che consente a Herbert, per dirla con Assmann, la conversione da un’«ermeneutica della differenza», per la quale esiste una sola religione vera mentre le altre sono false, a un’«ermeneutica della traducibilità», per cui i nomi di Dio delle distinte tradizioni religiose sono cifre convertibili e unificabili attorno a un unico fondamento, sono proprio le «nozioni comuni» costituenti la religio mentis, la religio del Laicus Viator erede dell’erasmiano «Monachatus non est pietas» e del «credo minimo», anch’esso erasmiano nonché già cusaniano: una religione da concepirsi come struttura apriorica o “trascendentale” della coscienza, per usare, pur con la dovuta cautela, categorie kantiane, ben distinta dalle rivelazioni storiche, che di essa sono concrezioni parziali e mai definitive. Idea che, nel De Religione Gentilium, cui la Bartalucci dedica un’acuta e fine analisi articolata in più capitoli, viene “storicizzata”, per così dire, ponendo, da una parte, la religione pura dei primordi, quella dei laici doctiores, dall’altra, la religione sacerdotale, corruzione di quella originaria, che in sé non necessita se non del culto della coscienza, priva delle successive aggiunte rituali e cerimoniali.

Proprio questa logica religiosa che si potrebbe definire del doppio registro, articolata tra religio mentis e religioni storiche, consente a Herbert di congedare la «distinzione mosaica» relativizzando la pretesa di esclusività di ogni rivelazione e Sacra Scrittura, e invertendo il criterio di verità con cui giudicare queste ultime: la religione vera non è fondata sulla Bibbia perchè, in quanto inscritta nella natura e nelle capacità naturali dell’uomo, le preesiste e le è ulteriore. Al contrario, essa fonda la verità della Scrittura. La Bibbia è vera perchè contiene le cinque nozioni comuni, ma è vera solo nella misura di tale conformità e limitatamente ad essa, mentre, in questa sorta di “rivoluzione copernicana”, non vale la reciproca (le cinque nozioni sono vere perché contenute nella Bibbia). Il nucleo veritativo, proprio in nome della sua “cattolicità” fondata sulla natura e non bisognoso di alcuna rivelazione storica, non è prerogativa di alcuna Chiesa. Per dirla con Lessing, che per Assmann incarna, con Nathan il saggio e la Leggenda dei tre anelli, una figura cruciale del superamento moderno della distinzione mosaica: «la religione non è vera perché gli evangelisti e gli apostoli la insegnarono; bensì essi la insegnarono perché è vera».

Alla severa erudizione e al rigore storico della Bartalucci, erede del grande magistero di Eugenio Garin e di Cesare Vasoli, due maestri che rappresentano tra i massimi storici della filosofia che l’Università italiana abbia avuto, va unita l’eccezionale attualità della proposta di Herbert: mai come oggi – siamo convinti – c’è bisogno di ripensare la sua Religio Laici. La religio laici di cui l’homo viator tardo-moderno, orfano del Dio della tradizione ebraico-cristiana, ha bisogno, se non è più configurabile tout court come religione naturale, senza essere ripensata aus der Sache selbst, ben potrà recepire, della proposta herbertiana, le idee di universalità della rivelazione, del religioso come struttura costitutiva della coscienza, lo spirito razionale, la criticità, il dialogo in vista della pace tra le religioni, la ricerca di quanto accomuna le fedi nell’orizzonte di un credo minimo. Per essere ospitate dalla modernità, meglio, per ospitare in sé la modernità, occorre che le religioni incorporino lo spirito di una retta laicità e Herbert, in questo, può offrire un apporto idealmente contemporaneo di grande rilievo.

Roberto Celada Ballanti

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