La cena di fine estate

Per tanti anni, ai tempi del liceo e nei primi anni di università, eravamo soliti organizzare la cena di fine estate, una sorta di grande festa che segnava il ritorno alla vita normale, dopo le vacanze.
Una ventina di amici, forse di più, tra compagni di scuola, fidanzati e conoscenze estive, era un rituale propiziatorio, un momento in cui le tensioni e le tristezze venivano dimenticate, era puro divertimento.
Seduta sul lungomare, pensavo con nostalgia a quell’epoca ormai lontana.
A differenza di quei tempi, l’ultima settimana di agosto si preannunciava piuttosto deprimente, nonostante che Max Gazzè continuasse a deliziarmi via radio con la sua canzone tutto sommato motivante, seppure dal retrogusto amaro.

… l’amore porta guai, si perde quasi sempre c’è gente che facile non si riprende più. Ma tu, guarda me, prendo tutta la vita com’è, non la faccio finita, ma incrocio le dita e mi bevo un caffè…

Eh sì, un caffè. Magari bastasse, pensavo.
Quell’anno 2015 era davvero nato sotto i peggiori auspici e così stava continuando.
E pensare che l’estate precedente vedevo un futuro roseo, ero addirittura euforica.
Quarantacinque anni, la più bella età della donna, così mi pareva.
A ravvivare il mio spento menàge familiare, da troppo tempo immobile e senza stimoli, era arrivato Cosimo, biologo ambientale e ricercatore.
Ci eravamo conosciuti nella banca di cui sono direttrice, perché lui aveva bisogno di un mutuo, dato che stava ristrutturando la casa al mare, ereditata dai genitori.
Si dava il caso, però, che il suddetto avesse una moglie e pure un figlio, ma la cosa non mi era sembrata rilevante, dal momento che anch’io ero infelicemente sposata e madre di una ragazzina di dodici anni.
Lui era prima di tutto bello, alto e abbronzato, con gli occhi scuri e ambrati e l’andatura agile e leggera, nonostante il suo metro e ottantotto.
Ma al bell’aspetto aggiungeva una cultura impressionante, non solo scientifica, affrontava con scioltezza qualunque argomento, dalla letteratura alla storia, amava come me la musica di tutti i tipi.
Insomma, era la mia anima gemella, arrivata un po’ in ritardo, ma sempre nel pieno vigore degli anni.
La villetta da ristrutturare, affacciata sul mare di Talamone, era diventata la nostra alcova.
Provavo sensazioni ormai dimenticate, forse addirittura sconosciute, e così era per lui, ne ero certa.
Mio marito, di nome Leone, ma di fatto vivace come un pesce lesso, non si accorgeva di niente. Continuava la sua spola tra lo studio di commercialista, casa e anche chiesa, dato che, a differenza di me, era cattolico praticante e anche piuttosto bigotto.
Nostra figlia Letizia era la luce dei suoi occhi, molto più che dei miei. Era lui ad occuparsi di accompagnarla a destra e a manca, sempre pronto, giorno e sera, a esaudire i suoi desideri.
Man mano che la storia con Cosimo procedeva, lo sopportavo sempre meno, evitavo i suoi pur rari approcci e facevo continui confronti tra il mio atletico e colto amante e il mio leggermente pingue e culturalmente amorfo marito.
Così, a novembre, il 15, giorno del mio compleanno, decisi di affrontare il problema e spiattellai tutto a Leone: che mi ero innamorata, che volevo separarmi e che il nostro matrimonio non aveva più senso.
Lui non la prese per niente bene, si trasferì da sua madre ed entrò in una fase di silenzio assoluto, ma, nel giro di una settimana, ebbi notizie dal suo avvocato.
Voleva la separazione immediata, l’affidamento congiunto di Letizia, nessun contributo economico, dato che la figlia sarebbe stata con lui per metà tempo e io ero più che autonoma.
Beh, pensai, in fondo non andava neppure male, avrei avuto molto tempo libero da dedicare a Cosimo, in attesa di una futura convivenza che immaginavo imminente.
Immaginavo. Appunto.
Cosimo, quando gli dissi della separazione, si dimostrò tutt’altro che entusiasta.
“Valeria – mi apostrofò con espressione dura – non ti ho mai chiesto questo”.
“Sì, Cosimo, ma era ovvio, inevitabile”.
“Ma ovvio cosa? – esplose lui praticamente urlando – Non ti ho mai detto di voler lasciare la famiglia né ti ho chiesto di lasciare la tua! Capito? Non so quale follia ti abbia spinto a un passo del genere”.
Ero senza parole.
Cercai di avvicinarmi, pensando di ricomporre tutto col sesso, ma lui mi fermò con le sue lunghe braccia.
“No, è finita. Vai via, la nostra storia era bellissima nella cornice di questo panorama, di un luogo terzo rispetto alle nostre vite. Non ho mai pensato a un futuro con te”.
Tornai a casa fuori di me, neppure ricordo come riuscii a guidare, tra le lacrime, in una sorta di stordimento doloroso.
Capii anche che non c’era alcuno spazio per un recupero del mio spento ma funzionale matrimonio.
Leone, ormai, mi evitava, parlavamo di rado ed esclusivamente della figlia.
A fine gennaio eravamo già separati legalmente.
“E sei fortunata – specificò il mio consorte – che il nostro appartamento è intestato solo a te, altrimenti ti avrei buttato fuori di casa. Rimpiango quando ho fatto questa scelta per motivi fiscali. Comunque, non mi mancano le risorse per una nuova dimora, né per una nuova vita”. E, sprezzante, mi lasciò da sola sulle scale del tribunale.
Una nuova casa, certo. Una nuova vita, figuriamoci, pensai. Invece a maggio Leone era già fidanzato con Paola, una insegnante di lettere quarantenne, da poco separata dal marito.
Mia figlia ne parlava con affetto, “Paola mi aiuta a fare i compiti”, “Paola è molto simpatica”, “Sono andata al cinema con Paola”, e così via.
Sorridevo obtorto collo, d’altra parte ero stata io ad aprire quel vaso di Pandora.
Pensavo ne uscissero amore e passione, invece per me erano usciti solo guai e umiliazioni.
“Un vero cliché” aveva commentato mia madre, ex sessantottima e donna di mondo.
“Se me ne avessi parlato, avremmo potuto evitare questo disastro, te lo avrei detto che l’amante sposato di una donna sposata non ha alcun interesse a cambiare una situazione stimolante e senza impegno”.
“Ma io credevo…”.
“Che fosse un grande amore? – lei scuotendo il capo – ma come sei ingenua, alla tua età”.
Risentita, le risposi: “Vabbè, ma anche tu ti sei separata quando ero piccola, hai cambiato due compagni e hai sempre fatto quel che ti pareva”.
“Sì, infatti, proprio qui sta la differenza: io ero e sono libera di testa, tu sei come tuo padre, fragile e convenzionale. Senza marito sarà dura per te”.
E con questa sentenza lapidaria, si affrettò ad andar via, perché aveva la partita di burraco. La vita sociale di mia madre, pur settanduenne, era decisamente più brillante della mia.
Mentre ripercorrevo le amare vicende che mi avevano condotto alla solitudine di quell’estate (tra l’altro mia figlia stava molto più col padre che con me, per sua scelta), mi sentii chiamare da una voce squillante.
“Valeria, mia tenera Wally!”.
Solo una persona mi apostrofava così ed era la mia compagna di banco del liceo, Giovanna Pradelli, detta Jenny.
Alzai gli occhi ed eccola lì, dopo quasi vent’anni dall’ultima volta che ci eravamo incontrate.
Era sempre lei, vivace e scattante, con i capelli cortissimi e un’abbronzatura invidiabile. Non aveva messo su un etto, indossava un abitino rosso, più adatto a un’adolescente che a una donna di mezza età, ricco di intarsi e trasparenze, da cui emergevano le sue gambe nervose e le immancabili scarpe tacco dodici.
Dopo la maturità, nell’88, era andata a studiare lingue a Roma, non si era laureata, ma era riuscita a entrare nel mondo dello spettacolo.
Negli anni ’90 l’avevamo vista spesso in televisione in qualche varietà, ruoli minori nelle fiction televisive e anche un po’ di cinema.
L’ultima apparizione di un certo rilievo era stata nel 2006, quando aveva partecipato a un film di Christian de Sica, un cinepanettone, si era trattato una piccola parte, ma tutti noi compagni di liceo l’avevamo vista e apprezzata.
Poi si era sposata, così ci aveva detto la madre, e si era ritirata dalle scene dopo la nascita del figlio.
Fu un incontro molto piacevole. Dopo tanta tristezza, mi sentivo nuovamente una liceale, in vena di ridere e di scherzare. Lei, poi, non era cambiata affatto, raccontava divertita la sua storia, il teatro, la televisione, il cinema, e poi il marito regista da cui si era separata. Suo figlio ora aveva otto anni e stava un po’ con l’uno un po’ con l’altro, ma tutto tranquillo, famiglia allargata.
Aveva ripreso a lavorare, non era facile, ma qualcosa faceva, qualche serata, particine, e così via.
A differenza di ciò che accadeva con le altre amiche, spose e madri convenzionali, parlare con Jenny fu davvero facile, potei raccontarle tutto, della passione per Cosimo, della mia improvvida decisione e di come mi fossi ritrovata inaspettatamente sola, mentre tutti gli altri, figlia compresa, sembravano aver trovato la loro dimensione.
“Ma com’è che sei tornata a Grosseto, Jenny?”.
“Sono solo di passaggio, cara, mi fermo qualche giorno per salutare i miei, ma ormai siamo estranei, non abbiamo molto da dirci. La figlia attrice, divorziata, mezza matta, non può competere con l’altra loro figlia medico, sposata e ligia ai doveri. Ma sai che ti dico? Meglio così, mia sorella è noiosissima e non ti dico il marito!”.
Nella povertà del cuore che mi trovavo ad attraversare, l’amica ritrovata mi sembrò un dono del cielo, era un raggio di sole in mezzo al buio in cui era precipitata la mia vita.
Purtroppo, il soggiorno di Jenny sarebbe durato davvero poco, il lunedì successivo doveva tornare a Roma per un impegno in una TV locale.
Ma le sorprese non finirono qui. Il giorno dopo il nostro incontro, la mia amica mi telefonò comunicandomi che aveva incontrato un suo ex dei tempi del liceo, Antongiulio detto Giulietto, all’epoca aspirante cantautore, di cui si erano perse le tracce. L’ultimo anno di liceo, la sua famiglia si era trasferita a Firenze e piano piano avevamo perso ogni contatto.
“Guarda, mia piccola Wally, è ancora un bell’uomo, dal presente un po’ incerto, forse, un divorzio, un paio di figli e un successo evanescente. Però, è sempre lui, frizzante, spiritoso, galante. Ha detto che dobbiamo assolutamente organizzare una cena di fine estate, proprio come ai vecchi tempi. Che ne dici?”.
In un altro momento, probabilmente, avrei lasciato perdere. Queste rimpatriate di vecchi compagni di scuola rischiavano di finire nel patetico. Ma, in quel momento della mia vita, le sere erano talmente monotone e vuote che non me la sentii di rifiutare”.
“Benissimo, Wally cara. Allora, tu pensa al ristorante, poi ci dividiamo le persone da contattare e organizziamo per domenica sera, va bene?”.
Sì, certo, andava bene. Così, il giorno dopo, Jenny ed io contattammo tutti i nostri amici del liceo. La mia memoria leggendaria faceva sì che ricordassi ancora l’elenco in ordine alfabetico, proprio come quando i professori facevano l’appello.
“Accori, Baldi, Bormini… Magni… Oriolo…” e così via fino a Viali Valeria che ero io, ultima nel registro e prima della classe.
Eravamo ventotto e riuscimmo a rintracciarne ventisei. Non male, pensavo.
Ma le prenotazioni furono ancora di più. Ben sei di essi dissero che avrebbero portato il coniuge, per cui, alla fine, saremmo stati trentadue.
Contattai alcuni ristoranti della zona, ma l’unico che aveva spazio sufficiente e disponibilità fu il locale di Carmine, un cliente della banca, che gestiva un ristorante a Principina a mare.
Negli anni precedenti, prima della perdita di senno che mi aveva portato alla separazione, andavamo spesso lì con mio marito e mia figlia, a volte con i nostri amici o con i parenti.
Carmine, un po’ sorpreso di non avermi più visto, fu molto contento di sentirmi.
“Ma certo, dottoressa, porti pure i suoi amici, vedrà che non rimarranno delusi”.
Concordammo un menu molto ricco e vario, dal costo non irrisorio, ma accettabile per borghesi benestanti quali noi eravamo. Medici, ingegneri, avvocati, bancari, insegnati, commercialisti e addirittura un notaio. Più i due artisti non del tutto compresi, Jenny e Giulietto.
Settanta euro a testa sembrò a tutti una cifra accettabile.
E lo sembrò ancora di più quando Carmine mise a nostra disposizione tutte le sue prelibatezze, dalle ostriche all’insalata calda di mare, dai tagliolini all’astice agli gnocchetti alla polpa di granchio… Secondi di pesce di ogni tipo, contorni variopinti e perfino una torta a forma di vocabolario di latino, con la scritta da me suggerita: “Carpe diem”.
La regina della festa, senza alcun dubbio, era Jenny, vestita di bianco e argento e svolazzante come al solito. Una farfallina, una leggiadra libellula, pensavo.
Tutti i nostri compagni ne erano stati un po’ innamorati e lei lo sapeva.
Così elargiva sorrisi, parole gentili, battute divertenti e storie romanzate della sua vita artistica.
Per la prima volta da molto tempo, mi sentivo allegra e spensierata, di nuovo sorridente, quasi adolescente.
Sul finire della cena, però, squillò il telefono. Era Leone, di sicuro qualche grana, pensai. Era proprio così, infatti. Letizia era caduta di bicicletta e si era rotta un braccio.
La frattura era scomposta e il giorno dopo l’avrebbero operata, cosicché era stata trattenuta in pediatria.
“Guarda – aggiunse sprezzante il mio ex – io non ti avrei neppure chiamato, tanto più che con lei c’è Paola, ma i medici vogliono che a dormire con lei sia un genitore e possibilmente la madre, per cui, cara mia, devi abbandonare le tue frivole attività e fare la mamma almeno per un giorno”.
Ero furibonda, ma evitai di litigare per non dare spettacolo.
Comunicai la cosa agli amici e tutti espressero solidarietà. Mi dispiaceva lasciarli così, tanto più che ero stata l’organizzatrice, ma dovevo assolutamente raggiungere mia figlia in ospedale.
“Non ti preoccupare, mia tenera Wally – disse Jenny con fare affettuoso – penso a tutto io, raccolgo i soldi e pago il ristorante, anzi, guarda, mi faccio aiutare da Giulietto, dato che ancora stravede per me!”.
La ringraziai, versai i miei settanta euro e me ne andai dopo aver salutato tutti, ma soprattutto i due artistici compagni, Jenny e Giulietto, che davvero sembravano i più giovani e non scalfiti dal peso delle responsabilità.
Letizia fu operata con successo, dopo qualche giorno tornammo a casa e la settimana dopo rientrai al lavoro.
Il mercoledì, erano ormai trascorsi dieci giorni dalla cena, la mia segretaria si affacciò alla porta.
“Valeria, c’è un cliente che vorrebbe parlare con te”.
“Di che si tratta?”.
“Non lo so, comunque è Carmine Colano, il ristoratore”.
“Ah, bene, fallo passare, così gli faccio ancora i complimenti per l’ottima cena!”.
Carmine entrò con fare circospetto e chiuse la porta dietro di sé.
Era un uomo non molto alto, lievemente in sovrappeso, ma sempre molto ordinato ed elegante. Inoltre, lo caratterizzavano i modi estremamente educati, mai confidenziali che rendevano gradevole il suo lieve accento partenopeo.
“Dottoressa, buongiorno, scusi se l’ho disturbata”.
“Ma no, si figuri, Carmine, lei è sempre gradito nel mio ufficio. Mi dica”.
Pensai che dovesse chiedere un prestito o magari un mutuo, di sicuro avremmo trovato un accordo.
Le mie riflessioni si rivelarono assolutamente lontane dalla realtà.
“Mi scusi, ma aspettavo il pagamento della cena, sono passati già dieci giorni…”.
Ero allibita.
“Scusi, ma non ha pagato la mia amica, sa, la signora vestita di bianco e argento, molto bella…”.
“Sì, certo, la signora Jenny, l’attrice. No, non ha pagato, anzi mi ha detto: ci pensa la dottoressa Valeria, nei prossimi giorni passa lei”.
Guardavo il valente ristoratore senza riuscire a proferire parola.
Poi mi riscossi.
“Sì, sì, certo, non c’è problema, forse non c’eravamo capite. Mi dica, quant’è?”.
“Settanta euro a testa, come stabilito, sarebbero 2240 euro, ma le faccio un piccolo sconto, proprio perché è lei, sono 2100”.
Senza ulteriori indugi, tanto non sarebbero serviti a niente, compilai un assegno e di nuovo mi scusai con Carmine per il disguido. Ma, appena l’uomo fu uscito dal mio studio, telefonai a Jenny per avere spiegazioni.
“Non è andata così– replicò – non ho mai detto che ci avresti pensato tu. Io e Giulietto abbiamo raccolto i soldi e alla fine li ho dati tutti a lui, perché dovevo andare via”.
Non sapevo se crederle, ma le dissi di darmi il numero del nostro amico cantante, volevo chiarire la questione.
Giulietto mi rispose cordialissimo.
“Oh, carissima Valeria, che piacere sentirti, dopo la bellissima rimpatriata che hai organizzato in modo così perfetto!”.
“Appunto, proprio di questo volevo parlare”.
E gli chiesi notizie in merito al conto non pagato.
“Ma Valeria cara, cosa dici? Io ho raccolto una parte dei soldi, ma poi li ho dati a Jenny… Beh, lo sai come è fatta… mai stata affidabile!”.
Ero davvero arrabbiata e insieme spiazzata. I due fenomeni si accusavano a vicenda, come nei peggiori copioni o in alcune controverse e chiacchierate vicende giudiziarie.
Fatto sta che non c’era modo di sapere la verità, anche se sospettavo che i due si fossero spartiti il bottino in pieno accordo, magari festeggiando l’evento con una notte di sesso in memoria dei vecchi tempi.
Quel pomeriggio ero ancora più giù del solito.
Mi sedetti sconsolata su una panchina del lungomare e, mentre una lacrima furtiva faceva capolino dai miei occhi, mi giunse dal vicino stabilimento balneare la voce ormai familiare di Max Gazzè:

… c’è gente che come me non si riprende mai, lo sai. Guarda te, questo straccio di vita cos’è, non la faccio finita soltanto perché è pronto un altro caffè…

In quegli attimi di sconforto e abbrutimento, mi sembrò che il cantante mi stesse dando un suggerimento, per cui l’unica cosa da fare mi sembrò quella di recarmi al bar dello stabilimento e ordinare un caffè. Amaro, ma indispensabile.

In attesa di tempi migliori.

Fulvia Perillo

Commenti

2 commenti a “La cena di fine estate”


  1. Arduino Carla. ha detto:

    Bel racconto con diversi colpi di scena!

  2. Franca Lenzi ha detto:

    Racconto interessante che si legge con piacere.

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