Il nipote di Platone

… uomo che ai malvagi non è neppure lecito lodare
Aristotele

Stasera sono qui a piangere mio zio, ma la perdita per la sua morte è ben più grande di un vuoto familiare. Qualcosa di unico è accaduto con la sua nascita e sicuramente la sua scomparsa sarà ben diversa da quella della maggior parte degli uomini che lasciano solo un’ombra tenue che dopo pochi anni si rarefà e scompare.
Io sono infatti, e mi onoro di essere, Speusippo, nipote del più grande dei filosofi che la Grecia abbia conosciuto, ovvero Platone.
C’è chi dice che il suo vero padre fosse il dio Apollo e io, talvolta, l’ho pensato. Pur sapendo che mio nonno era genitore sia di Platone che di mia madre, mi è sorto il dubbio che, oltre alla genealogia terrena, ci fosse una più alta volontà che abbia fatto incarnare l’anima immortale di mio zio in questo tempo e in questo luogo.
Quando sono nato io, Platone era già un uomo maturo e un filosofo conosciuto. Socrate era morto da qualche anno e i suoi allievi sviluppavano in modi diversi il loro pensiero.
Ma tra tutti, la stella di Platone brillava luminosa e la sua mente era lucida e immaginifica, il suo parlare affascinante e i suoi scritti incredibilmente completi: poetici e scientifici al tempo stesso.
Piango lacrime dolorose stasera, ma forse dovrei essere felice per l’alto privilegio avuto in sorte nella parentela e nella vicinanza con un uomo di siffatta grandezza.
Quante giornate avrei da raccontare e quanti aneddoti, discorsi, insegnamenti…
Ma, tra tutto ciò che potrei ricordare di mio zio, mi sta particolarmente a cuore la sfida con Aristippo di Cirene, avvenuta quando ero poco più che un bambino.
Aristippo, dicevo, pur avendo avuto lo stesso maestro, si differenziava moltissimo da Platone.
Direi che erano come il giorno e la notte.
O forse non è corretto dire questo, dato che sia la notte che il giorno sono caratterizzati da aspetti di infinita bellezza. Certo, il sole che brilla è magnifico, ma non ha niente da invidiargli il firmamento con il suo infinito brillare di stelle; o il chiarore della luna, astro caro ad Artemide, sorella altrettanto splendente del dio Apollo.
Diciamo che quell’Aristippo era spiacevole come un giorno dal cielo coperto, magari quando la nebbia rende tutto poco chiaro…
Ecco, lui era così: né Artemide né Apollo gli avevano fatto dono di qualche residuo di splendore.
Però, la sua caratteristica era quella di saper adulare i potenti e, pur non vivendo ad Atene, la sua fama si era sparsa per tutte le città e passava per essere un grande filosofo.
Talmente opportunista era che più di una persona, anche di rango elevato, sentendo sempre da lui quel che desiderava sentire, lo preferiva a mio zio, le cui argomentazioni, dotte e circostanziate, non erano affatto addomesticabili.
In occasione di una olimpiade, Aristippo tornò ad Atene e qui sì che poteva esprimere la sua natura di uomo da poco.
La gente era tanta, le chiacchiere ancora di più. E lui nel pettegolezzo sguazzava bene.
Era più anziano di mio zio di diversi anni e quest’ultimo teneva conto della differenza di età ed era pertanto molto gentile e rispettoso benché Aristippo non perdesse mai occasione di parlar male di lui.
Tra l’altro, questo figuro era molto accondiscendente con i potenti, ma estremamente maleducato con tutti gli altri.
Io stesso mi sono trovato a vederlo espettorare senza ritegno, magari addosso a uno schiavo, di cui non aveva alcun rispetto. Oppure accompagnarsi in pubblico con donne di malaffare, contravvenendo a un’etica che avrebbe dovuto contraddistinguerlo.
Ma lui teorizzava il piacere come massima aspirazione della vita, ogni tipo di piacere, dato che, diceva a proposito di un’etèra con cui si accompagnava spesso, “La possiedo, ma non ne sono posseduto. E così è per il piacere di ogni tipo. Sono io che lo possiedo e questo rende la mia vita migliore di quella di coloro che, dialogando troppo e sognando mondi celesti pieni di idee, pensano di vivere con gli dei, ma in realtà sono per molti oggetto di scherno”.
Queste voci, naturalmente, venivano riportate a Platone, che però volava alto e le ignorava, mentre io, giovane e sensibile, schiumavo di rabbia senza poter fare nulla.
Fu un allievo di Platone, il migliore di tutti, Aristotele a suggerire una sfida tra i due, affinché una volta per tutte, si chiarisse la grandezza del maestro e il cafone di Cirene terminasse la sua opera di diffamazione.
Ma, da uomo avveduto qual era, decise di procedere senza avvisare Platone che, per sua natura, tendeva a non considerare troppo ciò che non riteneva essenziale.
Così avvicinò Aristippo, fingendo di essere un suo estimatore.
“Aristippo – gli disse- In Atene molti dicono che tu sia un filosofo davvero grande, molto più di Platone, perché, a differenza di lui che si occupa tanto delle cose del cielo, tu stai attento alla vita quotidiana e sai che non esistono verità assolute, ma solo opinioni.
Perciò, dico io, dovresti sfidarlo pubblicamente tanto da dimostrare chi è il più dotto e degno di lode”.
Aristippo, vanesio com’era, accolse subito l’idea con grande entusiasmo. Tanto più che, attaccato al denaro com’era, vedeva in una sfida da cui riteneva di uscire vincitore, l’occasione per essere ospitato nelle case dei ricchi, magari a educare qualche loro figlio, naturalmente in cambio di ingenti somme di denaro.
Fu dunque lui stesso a proporre a Platone di sfidarsi a comporre un’opera filosofica che avesse per oggetto un pranzo.
Figuriamoci, pensava, lui così teorico, cosa mai potrebbe scrivere? Solo banalità. Mentre io, lo sanno tutti, sono uno che sa godersi la vita e conosco i segreti del cibo, anche quelli più nascosti che conducono poi a migliorare le prestazioni nell’alcova.

Platone, benché inizialmente riluttante, accettò la sfida e, trenta giorni dopo (il tempo che si erano dati per comporre il testo indicato),
si trovarono nella grande sala dove Platone era solito ricevere gli allievi.
C’eravamo tutti e c’erano anche molti notabili di Atene e qualcuno venuto da lontano, perfino da Efeso e da Smirne, per assistere a un evento che si annunciava quanto meno originale.
Il primo a parlare fu Aristippo, gongolante e tronfio come non mai, che illustrò i piaceri della tavola con dovizia di particolari. Cibi, spezie, bevande, e poi tendaggi e dettagli d’ambiente. E infine i dettagli più scabrosi, in vista di un piacere successivo.
“Questa è la vita – concluse – Soltanto i fatti umani sono degni di interesse, lasciamo ai sacerdoti dei templi le questioni degli dei che, per quanto ne sappiamo, potrebbero esserci o meno, ma comunque non sono tra noi, mentre il buon cibo, il vino e le donne sono a portata di mano”.
L’eloquio di Aristippo era molto sciolto, disinvolto e usava termini appropriati benché i suoi argomenti fossero volgari.
Diversi dei presenti mostrarono di apprezzare.
Poi prese la parola Platone e il titolo del suo intervento (e della sua opera) fu Il Simposio.
In un attimo, fummo trasportati dalla tavola piuttosto rozza di Aristippo in un luogo meraviglioso, dove Socrate e altri dotti ateniesi disquisivano dell’amore durante, appunto, un simposio.

«Così io sostengo che Amore è il più antico fra gli dei, il più meritevole di onore e quello che è più padrone di spingere gli uomini, da vivi e da morti, all’acquisto della virtù e della felicità».

Da lì, il discorso si ampliava, magnificamente, artisticamente.
Si parlava di un mito, dove gli uomini, in un tempo lontano, erano stati divisi in due da Zeus, e dunque, successivamente, tendevano sempre a cercare la propria originaria metà per ritrovare la perduta armonia.
Ben più lungo e complesso fu il dialogo di Platone, tanto che la meraviglia, durante l’esposizione, cominciò a leggersi sui volti dei convenuti, uno a uno colpiti dalla descrizione che mio zio riusciva a fare di Eros, dei suoi aspetti più vari, figlio di Penìa (Povertà) e Pòros (Espediente), dunque con qualità positive e negative a seconda di come si posi lo sguardo su di esso.
Al termine del discorso, tutti gli astanti erano ammutoliti, rapiti dalle parole di Platone e anche palesemente più in alto col pensiero di come erano andati durante la relazione di Aristippo.
Uno a uno, tutti vennero ad omaggiare il Maestro e io ero felice oltre ogni dire di vedere che finalmente a mio zio venivano riconosciuti i meriti, ma, soprattutto, si era finalmente capito quanto lui e Aristippo non fossero confrontabili, in quanto appartenenti a categorie del tutto diverse.
Il giorno dopo, Aristippo ripartì per Cirene e non tornò mai più, fortunatamente.

Per tanti anni ancora, io, Speusippo, ho potuto godere della compagnia e degli insegnamenti di mio zio.
Stasera piango e sento la sua mancanza, ma sono anche consapevole che un uomo come lui sia in realtà immortale e tra migliaia di anni ancora molti leggeranno le sue parole e apprezzeranno le idee da cui esse derivano.
E forse, poi, chissà, un giorno, le nostre anime torneranno sulla terra in qualche forma. E l’Amore continuerà a illuminare la nostra strada.

Fulvia Perillo

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