“Il gatto simbolo di libertà” di Giovanni Rajberti

(tratto da Sul gatto. Cenni fisiologici e morali di Giovanni Rajberti a cura di Roberto Goracci)

 

Tutto ciò farebbe credere che il gatto sia un docile amico, pronto ai vostri capricci, almeno quando si combinano colle sue comodità. Ma aspettate qualche settimana e me lo saprete poi dire. Un bel giorno egli trova l’uscio aperto, e vaghezza di novità lo spinge a salire le scale e a portarsi sul solajo. Di là, per un abbaino, monta sul tetto a respirare un’aria più libera e pura, e a dominare col guardo porzione della città. Ebbene, fate conto che da quel momento egli sia diventato maggiorenne e sciolto da ogni soggezione di famiglia.
Non vi adombrate, miei cari: egli sarà sempre il vostro gatto; rientrerà a pranzo e a cena; moltissime volte anche a dormire. Spesso accadrà che non esca di casa per tutta la giornata: egli terrà lunga compagnia alle donne che lavorano, starà molte ore al focolare, specialmente a quello della cucina; ma tutto ciò per suo beneplacito, senz’obbligo né regola, indipendentemente affatto dal vostro volere, senza dar conto di lunghissime assenze, e di importanti e frequenti modificazioni nel suo genere di vita. Fissatevi ben bene in mente questa verità: che il gatto non vive, come le altre bestie, pei vostri comodi, pei vostri piaceri; egli vive solamente per sé, non ubbidisce che ai proprii capricci, né fa alcun conto di voi se non in quanto vi trova pronti a’ suoi desiderii. Per esempio: egli verrà trenta volte, senza cercarnelo, a riposarsi sulle vostre ginocchia: la trentunesima che lo chiamate voi, egli non vuole, e se non vuole è finita. Pigliatelo e tenetelo a forza, che fingerà un istante di accomodarsi, e appena lo lasciate libero, vi scappa. Più vi ostinate, e più in lui si rinforza il puntiglio e lo spirito di contraddizione. Insomma, potrete bensì ucciderlo; ma ottenere da lui a contraggenio (n.d.r. controvoglia, malvolentieri) un atto anche minimo di sommissione e ubbidienza, questo no, eternamente no, no se avesse a precipitare il mondo.
O che bestia di carattere! o che sublime istinto di fiera indipendenza! di quella indipendenza che ha l’unica sua ragione in se stessa. L’arte classica ha voluto personificare la libertà in una donna, e la donna è sempre schiava. Speriamo che il romanticismo fra tante ardite e importantissime novità introduca anche questa: di simboleggiare quella dea in una gatta; persuasi che se perderemo alcunché dal lato estetico, verremo largamente compensati dalla verità del concetto.
La libertà è un’idea, o una parola, che fa delirare, affaticare e combattere tutte le generazioni. Una parola, dissi, perché questa è uguale per tutti. L’idea varia secondo i cervelli, anzi per i cervelli senza idee non sarà mai altro che la combinazione di alcune lettere dell’alfabeto. Molti tirano la libertà a questo concetto finale: «Ubbidire meno che si può; e, più che si può, comandare». Molti altri intenderebbero piuttosto: «Non comandare e non ubbidire a nessuno». Chi è fornito di senso comune s’accorge subito che caos sarebbe la società tanto nell’una che nell’altra maniera. Il gatto però è del secondo partito, e per conto proprio riduce a vera e pratica realtà ciò che per gli uomini è un’eterna chimera. Ma il peggio si è, che gli uomini sono indegni della libertà, in qualunque modo si voglia intenderla, perché sono incapaci di goderne: e anche quando a forza di oro e di sangue hanno raggiunto una qualsiasi libertà pubblica, corrono bestialmente a sacrificare la libertà privata, la vera e miglior libertà, davanti all’altare delle passioni.
Chi si fa schiavo dell’avarizia, chi dell’ambizione, chi delle femmine, chi della gola, chi del giuoco, chi della pigrizia; tiranni tutti assai più crudeli e tremendi di quei che urlano e picchian de’ piedi sul teatro dell’Alfieri. Altri lavora indefessamente a rendersi servo di bisogni artificiali, strani, nauseosi, riducendosi, per esempio, alla incapacità di star due ore senza fumar tabacco, o due minuti senza tirarlo su per le narici. Altri ha il talento di saper pescare le proprie catene fin nel mare delle superstizioni, e si condannerebbe a patir la fame piuttosto che sedere a una tavola di tredici persone; e rinuncerebbe a veder suo padre per l’ultima volta anziché mettersi in viaggio in venerdì. Tutti quanti poi vanno di perfetto accordo nello stringersi sempre più il capestro della servitù di mano in mano che progrediscono nella via del così detto incivilimento, imponendosi a vicenda i passatempi, le credenze, i pregiudizii, le mode, le convenienze, i riguardi, le dissimulazioni, le epoche di cercarsi o di fuggirsi, o di far l’uno e l’altro insieme colle carte di visita; la maniera di vestirsi, di addobbare la casa, di parlare, di danzare; le ore di andare, di stare, di pranzare, di dormire. Ed è dunque per questa gente che fu inventata la libertà? Credetelo, miei cari: gli uomini e i bruti che vivono con loro o per loro, sono tutti schiavi; tutti, ad eccezione del gatto. Il quale sa bensì godere tranquillamente i vantaggi che il vero materiale progresso introduce nelle case, come il tepor dolce ed equabilmente diffuso delle stufe, i morbidi cuscini elastici, gli squisiti intingoletti del cuoco; ma rifiuta le soggezioni e le sempre crescenti esigenze sociali, e non si lascia guastare lo spirito da nessun sistema nuovo, né imporre alcuna legge da chicchessia: sempre uguale a se stesso, pensa e agisce oggidì come cinquemila anni indietro; talché su di lui, che vive nel seno delle famiglie anche le più corrotte, non ha influenza neppure quel terribile contagio del mal esempio e dei cattivi compagni.

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